Per quindici anni, Marina Marzotto ha lavorato per mettere insieme risorse e budget dei film degli altri. Poi, a un certo punto, ha deciso di provare a farlo per sé stessa. Oggi guida Propaganda, una delle produzioni italiane più snelle e innovative, attente ai film di genere e alla sperimentazione. L’Italia, spiega, fa fatica a fare sistema. Si guarda sempre alla Francia come esempio positivo, ma ci si dimentica delle differenze strutturali e numeriche che ci sono tra i due paesi.
I dati, dice Marzotto, non vengono presi in considerazione per ciò che sono e spesso si tende quasi a sottovalutarli. Quello che serve al cinema e alla televisione italiani è la diversificazione: il pubblico deve poter scegliere e gli autori devono potersi esprimere liberamente, al massimo delle loro capacità. E invece c’è come una tendenza all’appiattimento e alla normalizzazione, che è il primo nemico del talento e della visione artistica.
Quando parla dei distributori, Marzotto parla di una mancanza di possibilità per i produttori di poter decidere e di poter trovare lo spazio giusto per i propri film. Non rinnega l’etichetta di “prodotto industriale”. Ribadisce, anzi, che ne abbiamo bisogno. Se ha scelto questo lavoro, l’ha fatto per amore. Tra il prossimo film di Paolo Strippoli, già autore di Piove, Incanto, la serie Never too late e il nuovo progetto di Alejandro Amenábar, Marzotto ricostruisce un bilancio preciso di quella che, oggi, è la nostra industria. Serve coraggio, ripete: non possiamo farci guidare unicamente dalla paura. Questo è il suo Controcampo.
Come sta il nostro cinema?
L’Italia è un paese strano. Tendiamo a fare il gioco del gambero: facciamo due passi avanti e due indietro. È sempre molto difficile capire dove stiamo andando. Indubbiamente ci sono delle possibilità in più, perché ci sono più player sul mercato e già questo è un grosso aiuto.
Però?
Quando parliamo di quanto siano bravi i francesi, fingiamo di dimenticare che in Francia, per un produttore, ci sono molteplici possibilità distributive, molteplici fonti di investimento e molteplici televisioni; non c’è un duopolio. In più, non ha molto senso provare, come spesso si fa, a confrontare il nostro box office con quello francese. In Francia ci sono il triplo dei nostri schermi.
Quindi qual è il punto?
I numeri sono una cosa concreta, vera, che non si può ignorare. Man mano che il mercato italiano continuerà ad aprirsi e ad accogliere nuove realtà, potrà approfittare di più occasioni.
In Italia, secondo te, resiste un problema di pluralismo di canali distributivi?
Adesso dobbiamo vedere che cosa succederà con Vision. Sicuramente, però, Medusa e 01 sono legate alla televisione generalista, e tutte e due ti dicono: noi non facciamo cinema di genere, punto. Hanno problemi con i film vietati, anche quando sono vietati ai minori di 14 anni. Quindi sì, direi che c’è un problema piuttosto oggettivo.
E per chi produce questo che cosa comporta?
Quando costruisci un film, lo costruisci soprattutto in base al mercato. Devi trovargli uno sbocco e capire come collocarlo. Fandango è stata molto coraggiosa con Piove di Paolo Strippoli, salvo poi ritrovarsi nella situazione kafkiana di avere un limite d’età per i minori di 18 anni. Ecco, quello è stato veramente incredibile.
Che cosa ricordi di quel momento?
Che stavamo andando al Festival di Sitges e che lì ho parlato con il direttore, Angel Sala, uno che di cinema di genere ne sa parecchio. Quando gli ho raccontato quello che era successo, lui è rimasto senza parole. Era sconvolto.
Secondo te da che cosa è dipesa quella decisione?
In realtà, non si è capito. Ci potrebbe essere superficialità nel guardare i film stranieri, a cui non vengono mai dati limiti del genere, oppure è un vero e proprio pregiudizio nei nostri confronti. Esistono due carreggiate. Una che permette ai film che vengono dall’estero di uscire senza problemi e l’altra, al contrario, che pone ostacoli ai film italiani. La stessa cosa vale per la televisione. Pensa alle serie americane che vanno in onda in prima serata e alle richieste che vengono fatti ai produttori italiani.
Da dove parti quando decidi di sviluppare un nuovo progetto?
Dovremmo pensare sempre prima per chi è e a chi vuole rivolgersi. Solo dopo, secondo me, è importante provare a elevarlo artisticamente.
Il dover ritornare continuamente alla televisione e a chi fa televisione è un problema per chi, invece, vuole fare cinema?
Forse oggi Lucky Red è l’unico distributore che ha come primo obiettivo lo sfruttamento cinematografico di un film, e che ha delle sale e un rapporto diretto con gli esercenti. Poi c’è Bim, per citare un altro nome. In generale, però, sono veramente pochi quelli che fanno della distribuzione cinematografica il loro core business. La maggior parte dei distributori, come Rai e Medusa, investono innanzitutto sul diritto antenna, di trasmissione televisiva, e solo quando sono davvero convinti entrano nella produzione e distribuzione cinematografica di un titolo.
Vorrei tornare per un momento a Piove. E in particolare al genere horror. In tutto il mondo, c’è stata come una riscoperta per questo tipo di racconti che costano poco e permettono, di solito, di guadagnare tanto. Qui in Italia no. Perché?
Potremmo parlare tanto e a lungo dei budget. L’horror ha un vantaggio: non ha bisogno di un cast riconoscibile; anzi, addirittura beneficia della sua assenza. Lo spettatore deve credere a quello che ha davanti, e a volte avere un attore troppo famoso può essere un limite per l’immedesimazione. E questo permette all’horror di abbassare drasticamente il budget di cui ha bisogno. In più, quello degli horror è un linguaggio che non tutti hanno. E non vale solo per i registi.
C’è un pregiudizio diffuso?
In Italia, c’è una specie di perbenismo. Fa quasi brutto, girare un horror. E in realtà gli horror hanno un ruolo quasi pedagogico, perché permettono ai pubblici più giovani di superare la paura. È un esperimento a freddo. Il target dell’horror, di solito, è tra i 14 e i 19 anni. Ed è proprio quel tipo di spettatori a cui noi, in Italia, vogliamo impedire di vederlo.
Un altro esperimento interessante, firmato da Propaganda, è stato 5 è il numero perfetto di Igort, uno dei pochi cinecomic italiani di questi ultimi anni. Lavorare sui fumetti, nel nostro paese, continua a essere complicato? Un tabù? Rischiamo di perderci anche questo filone?
Non chiamerei 5 è il numero perfetto esperimento. È stato un film che abbiamo fatto tutti abbastanza consapevolmente. In quel caso, ci troviamo davanti a un’eccezione. Perché parliamo di un film italiano, tratto da un fumetto italiano con un punto di vista italiano. Noi abbiamo avuto pochi film come questo in Italia. Alcuni hanno perso lo sguardo autoriale, di chi li ha fatti.
Voi, invece, avete preferito affidarvi a Igort.
Noi abbiamo preferito prendere un signore di quasi sessant’anni e fargli fare il salto quantico dal fumetto al cinema. Non aveva senso, per noi, dare la regia a qualcun altro. In Italia c’è stato Diabolik, che è interessante dal punto di vista interpretativo. E anche Dampyr, che è solo l’inizio del percorso della Sergio Bonelli Editore. Noi abbiamo sicuramente una miniera di storie. Abbiamo almeno tre o quattro titoli veramente importanti. Abbiamo visto che quando Zerocalcare è libero di fare quello che sa fare abbiamo dei risultati importanti. E abbiamo anche capito che dobbiamo stare più attenti quando ci muoviamo verso un prodotto più industriale. E voglio essere chiara su questo.
Dimmi.
Noi abbiamo bisogno di prodotti industriali. Se andiamo a vedere quello che viene prodotto, oggi, in Italia scopriamo che su cento film quarantotto sono commedie e quarantotto, invece, drammi autoriali. E quattro, invece, sono qualcos’altro. Siamo in una situazione particolare, in cui queste commedie spesso non fanno più ridere e questi drammi, così intimisti, faticano a trovare un pubblico. E questi altri quattro film non hanno qualcuno pronto a lanciarli e a distribuirli.
Dove si blocca, secondo te, il meccanismo?
Nella mia esperienza, ho sempre incontrato persone competenti. Non credo che manchino, quelle. Manca forse il coraggio. Il mercato italiano è un mercato che tende molto a guardarsi l’ombelico, e quindi punta sempre sugli stessi cinque attori, di cui parliamo in continuazione e che magari sono i primi a voler scappare da questo tipo di sistema, e sempre sulle stesse storie. Tutto, così, suona rassicurante.
Perché?
Non possiamo dimenticare che veniamo da un periodo molto, molto difficile. Nel 2019, per la prima volta dopo tanto tempo, stava tornando a diffondersi un’idea. E cioè che diversificare il prodotto, per offrire al pubblico cose differenti, è importante. Alla fine, se vuoi, si riduce tutto a una questione di insicurezza. Le logiche dei grossi gruppi sono logiche estremamente difensive e protettive. Stiamo ancora provando a ripartire dopo la pandemia.
Non si rischia, così, un cortocircuito?
Il problema è che noi guardiamo difficilmente ai numeri nudi e crudi, difficilmente analizziamo i dati per ciò che sono. Se diamo un’occhiata a quelli, ci accorgiamo che, messi insieme i pochi thriller che sono usciti nel 2023, quel genere funziona. Non lo dico io, attenzione: lo dicono i numeri. Se andiamo a vedere l’apporto dell’horror al box office italiano nel 2021, 2022 e nel 2023, vediamo che è impressionante. Qualcuno potrà dire che, non facendone da molti anni, il nostro pubblico è sospettoso nei confronti degli horror italiani. E per carità, è così. Ma se non cominciamo a farli, a insistere, non usciremo mai da questa situazione. Non possiamo reggerci solo su due tipi di caramelle, la caramella alla menta e quella all’arancia. Dobbiamo tornare a diversificare, perché il pubblico è consapevole. Guarda il box office di questo mese, da Il ragazzo e l’airone a Perfect Days. Nessuno, probabilmente, considererebbe Perfect Days come un film per il pubblico più ampio. E invece ha fatto dei numeri incredibili.
Le piattaforme streaming, oggi, stanno ripensando alle loro linee editoriali, puntando sempre di più – e questo è evidente – su prodotti capaci di intercettare il pubblico italiano. Non c’è il rischio, però, di ricadere nelle dinamiche delle televisioni generaliste? E cioè di investire sempre sulle stesse cose e di sperimentare poco?
C’è stato un periodo particolare sui mercati internazionali, e noi lo sappiamo bene perché lavoriamo molto con l’estero. Dopo il boom produttivo della pandemia, quando si cercava di inseguire esempi estremi come il successo delle serie coreane, tutti sono passati a un certo conservatorismo. E adesso, secondo me, stiamo cambiando di nuovo.
Che cosa è successo?
La paura ha toccato anche le piattaforme, che ora sono in guerra tra di loro per conservare i propri abbonati e per provare ad accrescere il numero di utenti. Non è vero quello che spesso si sente dire e cioè che le piattaforme guadagnano molti soldi. Se il settore intero, dal cinema allo streaming, fosse effettivamente in buono stato, sarebbe molto meno complicato sperimentare. Quando ci sono momenti più difficili dal punto di vista economico, si prova banalmente a puntare sul sicuro.
Esiste un sistema Italia?
È difficile da dire. Credo che ci sia stato sicuramente un tentativo di crearlo. Oggi, però, questo sistema non c’è. Se vogliamo fare un confronto con chi un sistema ce l’ha, come gli spagnoli e i belgi, senza nemmeno citare i francesi, è evidente che noi non ne abbiamo uno. Sono quasi dieci anni che i produttori chiedono di avere un formato di budget uguale a quello del MIC da presentare in tutte le regioni. E non riusciamo a ottenerlo. Abbiamo moduli diversi per ogni situazione. Non siamo bravi a fare sistema. Non siamo nemmeno bravi a renderci conto che siamo tutti interdipendenti.
Che vuol dire?
Da produttrice, mi importa come vanno le sale, le televisioni, i distributori e gli altri produttori. Perché tutta la filiera è importante. E invece ci sono sempre delle azioni furbesche, in cui ci si dimentica degli altri.
A che cosa state lavorando in questo periodo?
Siamo in post-produzione con due progetti di cui sono molto contenta. Uno è la nostra prima serie tv – alla fine anche noi siamo diventati grandi e siamo entrati nella serialità, sì (ride, ndr). È una co-produzione con Rai Fiction, e ne sono molto orgogliosa perché è una storia che si rivolge agli adolescenti, che parla di avventura e, allo stesso tempo, di cambiamento climatico. Per noi i temi restano centrali.
E come si chiama?
Never too late, che riprende uno dei claim di Fridays for future.
E l’altro progetto, invece, qual è?
È un film che si chiama Incanto. È diretto da Pier Paolo Paganelli, un regista che viene dalla stop motion. Speriamo che possa diventare il primo episodio di una serialità cinematografica rivolta alle famiglie. Nel cast c’è Vittoria Puccini, che interpreta il ruolo della cattiva, una cosa inedita per lei e che si rifà molto alla tradizione disneyana. La protagonista è una ragazza orfana, che si è chiusa in sé stessa e che ha perso qualunque contatto con gli altri e il mondo. Quando scappa dalla sua tutrice, arriva in un circo dove incontra e viene accolta da un clown bianco, interpretato da Giorgio Panariello; a questo punto, ritorna ad avere fiducia in sé stessa e in un certo senso rinasce. Abbiamo fatto questo film insieme ai co-produttori di 5 è il numero perfetto, e siamo stati particolarmente attenti alla creazione delle immagini e dell’immaginario: abbiamo Federico Costantini, scenografo che ha lavorato anche con Wes Anderson, Martina Cocco, che si occupa della fotografia, e Nicoletta Taranta ai costumi. Uscirà a fine anno.
Con 01 Distribution?
Non abbiamo ancora la certezza. Il film è prodotto con Rai Cinema. Quando lo vedranno, decideranno se metterlo in listino. Comunque c’è molto interesse, proprio perché è un film che si pone chiaramente e che è facile da identificare.
Quali sono, invece, i vostri progetti futuri?
In questo momento siamo in preparazione con El Cautivo, il nuovo film di Alejandro Amenábar, una cosa che mi rende davvero felice. Ci stiamo lavorando dal 15 gennaio. Svilupperemo tutti i costumi qui, in Italia, e poi faremo le riprese in Spagna.
Quando inizieranno le riprese?
Il 15 aprile. Dovremmo finire a giugno inoltrato. E poi c’è il nuovo film di Strippoli, L’Estranea.
Perché hai deciso di fare la produttrice?
Per amore, credimi. Per oltre quindici anni mi sono occupata di film financing, cioè di portare risorse ai film degli altri. Quindi a un certo punto mi sono detta: se posso farlo per loro, posso farlo anche per un progetto a cui tengo io, in prima persona. A un certo punto, ho fatto il master dell’NBC sullo showrunning. E mi piaceva lavorare sugli script e sulla scrittura. E poi un giorno proprio Nicoletta Taranta, che ho conosciuto sul set di Romanzo Criminale, mi ha detto: tu la devi smettere di fare tutte queste cose per gli altri produttori; devi cominciare a fare qualcosa per te.
Che cos’è importante?
Il talento. E per quanto mi riguarda se ne parla troppo poco. Credo che si dia troppo poco spazio alla visione dei talenti. Tendiamo a usare il talento, senza però dargli la possibilità di esprimersi, incasellandolo e costringendolo a determinate regole. Questo atteggiamento sta ferendo il cinema italiano ed è estremamente irrispettoso. Dobbiamo pensarci; dobbiamo chiederci perché Matteo Garrone è il nostro ultimo grande autore, in ordine anagrafico, e non abbiamo una nuova generazione pronta a farsi avanti.
Te lo chiedo anche io.
Non ci sono nuovi autori perché tendiamo a schiacciarli, a normalizzarli. E la verità è che il talento non ha nulla di normale o di prevedibile. Non è questa la sua natura. Non ci prendiamo abbastanza tempo per studiarlo, per cercare di capirlo, per scoprire che cosa ci può dare in più. Non creiamo corridoi. Noi abbiamo tre o quattro giovani oggi, che hanno meno di 35 anni e che sono molto interessanti, eppure io non vedo nessuna lotta tra i produttori per accaparrarseli. È questo che, secondo me, manca. Quando andiamo a vedere un film di Garrone, di Sorrentino, di Moretti eccetera, andiamo a vedere loro.
Puntare così tanto sull’autorialità, però, non rischia di riportarci alla situazione di cui parlavi prima? A scegliere tra la caramella alla mente e quella all’arancia?
Ma è giusto fare film autoriali, proprio com’è giusto fare commedie. Il problema è quando li facciamo senza ammettere altro, senza cercare un’alternativa o una diversificazione. In questo modo, perdiamo anche la competenza tecnica per i film di genere. E la tecnica, spesso, è fondamentale. Un film di genere si gira in maniera totalmente diversa rispetto a un dramma: ha bisogno di un altro ritmo, altri punti macchina. Si tratta di un altro linguaggio, e noi ci siamo disabituati a uscire da queste due scelte, la caramella alla menta e la caramella all’arancia. I nostri autori, però, non hanno bisogno di essere incasellati. Perché loro sono, punto. E un produttore, in quel caso, deve mettersi a disposizione, al loro servizio. Sono altre le situazioni in cui abbiamo bisogno di creare fermento e dialogo.
Chi sono questi talenti che secondo te le produzioni dovrebbero fare a gara per avere?
Per me Paolo Strippoli è un autore, ed è un autore molto interessante. Un’altra autrice da tenere d’occhio è Laura Samani; lei ha dimostrato di avere una sua idea di cinema molto forte. Poi ci sono degli autori che, secondo me, andrebbero messi nella condizione di esprimersi al massimo.
Per esempio?
Ivan Silvestrini, che ha trasformato, di fatto, Mare fuori in quella che è oggi, nel fenomeno che tutti conosciamo. Ed è un successo che dovrebbe garantirgli una certa libertà. Nel cinema, si può dare una forma più definita al proprio sguardo. E autori come Silvestrini non hanno ancora avuto la possibilità. Ma pensa anche a Claudio Giovannesi, che ha fatto dei film straordinari e che, secondo me, dovrebbe lavorare a progetti suoi, non tratti da grandi libri o da storie già famose, o a Lyda Patitucci, che vuole fare cinema di genere, d’azione, e che ha dimostrato di saperlo fare.
Riprendo una domanda che ti ho fatto all’inizio, cambiandola un po’: in Italia manca il pluralismo delle voci?
Forse siamo ancora in balia dei cliché, in Italia. Apprezzo molto la sicurezza nei pareri che molti danno su cosa non va. Personalmente, credo che un problema sia la normalizzazione di quello che viene raccontato, del talento e delle storie; c’è come un appiattimento che vuole tutti uguali – o almeno, ecco, molto simili. Il pluralismo manca quando non ci sono le stesse possibilità per tutti, quando queste voci fanno fatica a venire avanti e a formulare ciò che hanno in mente. Ci muoviamo in un cinema che, abbastanza spesso, è situazionale.
Che cosa significa?
Significa che anche le premesse e lo sviluppo del racconto sono simili, che gli stessi meccanismi narrativi tendono a somigliarsi. Poi arrivano film che non ci aspettiamo minimamente, come C’è ancora domani di Paola Cortellesi, e non riusciamo a capire che che cos’è successo. Il cinema ha bisogno di essere originale.
La comunicazione dei film, però, fa ancora tanta fatica a promuovere l’originalità quando c’è.
Anche lì lavoriamo su dei binari e delle formule precostituite, che non corrispondono a quello che succede oggi. E parlo proprio di linguaggi, di modi di esprimersi, dei mezzi più diffusi. Ne abbiamo discusso alle Giornate FICE a Mantova, e anche Alberto Barbera, il direttore della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, l’ha detto: io faccio questo mestiere, seleziono film, ma spesso non so nemmeno che sono in sviluppo o in uscita. Immaginiamoci, allora, che possibilità ha il pubblico. È importante ripensare questo modo di muoversi, l’approccio stesso alla comunicazione, non limitarsi – come si fa spesso – ai tempi stretti, perché i film diventano vecchi.
Che cos’è il talento?
L’unicità. Sia di vedute che di capacità espressive. Il talento ti permette di parlare una lingua che è solamente tua e di nessun altro.
A te, adesso, che cosa piacerebbe produrre?
Mi piacerebbe produrre un “silver bullet”, cioè una commedia rivolta a un pubblico più grande, anziano. E penso che in Italia manchi un’offerta per quel tipo di spettatori. E mi piacerebbe produrre una fantascienza più autoriale.
Qual è la prima domanda che ti fai quando ti ritrovi davanti a un nuovo progetto?
Siamo in due, in Propaganda, a leggere. Quindi immagina quante cose vedo ogni giorno. Abbiamo provato a chiedere, negli ultimi anni, di inviarci prima un soggetto e non subito la sceneggiatura, per andare più veloci. Anche perché, spesso, non ha senso chiudere subito una storia. Bisogna parlarne. E sviluppare le idee. La domanda veramente importante è sulle persone che firmano queste sceneggiature. Sono pronta, mi chiedo, a lavorare con questo autore? Noi non siamo una società molto grande; a volte, a un film lavoriamo per anni interi. Quindi è importante circondarsi di persone di cui potersi fidare. Serve un’apertura.
Ed è facile trovarla?
A volte, soprattutto all’inizio, trovi una certa resistenza che secondo me è dovuta al luogo comune del produttore che lavora contro il regista. Non appena però si capisce che tutti devono muoversi insieme, i problemi vanno via.
Che persone cerchi?
Io cerco persone che non hanno paura degli altri e che non hanno paura del loro stesso talento. La paura, se vuoi, è ciò che tiene insieme tutte le cose di cui abbiamo parlato. Dobbiamo impedirle di diventare la nostra bussola, ciò che ci guida e ci muove.
Gianmaria Tammaro, fanpage.it (26/01/2024)