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After Work cerca di immaginare un mondo senza lavoro

Il 55 per cento dei lavoratori americani nel 2018 ha volontariamente rinunciato a parecchi giorni di ferie pagate cui avrebbe avuto diritto. Perdendole perché non sono trasferibili da un anno all’altro.

Il dato viene da uno studio condotto dal Project Time Off della US Travel Association, secondo cui in quel solo anno sono rimasti inutilizzati 768 milioni di giorni di vacanza. Corrispondenti a circa di 65 miliardi di dollari di mancati benefici, una media di 571 dollari per dipendente.

Nella Corea del Sud Il ministro del lavoro Kim Joung Joo ha lanciato una campagna per convincere le persone a ridurre il super lavoro.

Tra gli effetti collaterali delle 14 ore al giorno che molti passano in ufficio: un’epidemia di tumori allo stomaco, e un alto tasso di suicidi. “Le famiglie sono a pezzi, l’infelicità dilaga”, dice il ministro.

Per costringere i dipendenti a tornarsene a casa prima di notte, hanno persino introdotto un sistema automatico di spegnimento dei computer alle 18. Un’iniziativa che hanno chiamato “Diritto al riposo” e che ha portato alla riduzione delle ore settimanali da 68 a un massimo di 52.

Inizia così il documentario After Work, in uscita al cinema il 15 giugno. Che racconta il paradosso di una società – per lo meno quella cosiddetta occidentale – che dopo aver messo per decenni l’etica del lavoro al centro dell’identità collettiva e individuale si trova oggi ad affrontare la “morte” di centinaia di milioni di posti di lavoro.

Il regista è l’italo-svedese Erik Gandini, autore e produttore di diversi documentari tra cui Videocracy che venne presentato alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2009.

Già dieci anni fa , due ricercatori di Oxford nel loro studio The Future of Employment (Il futuro dell’occupazione), avevano predetto che l’Intelligenza artificiale avrebbe portato alla fine di molte professioni nell’arco di un ventennio.

Previsione più che azzeccata, il che significa anche che nell’arco di 10 anni al massimo, il 47 per cento dei lavoratori americani sarà sostituito da “macchine” più efficienti di loro che, una volta sviluppate, avranno anche il vantaggio di non costare nulla.

Gli addetti al telemarketing verranno rimpiazzati da chat bot nel 99 per cento dei casi. Il 97 per cento dei cassieri verrà sostituito da sistemi di automatici di pagamento e a rischio sono anche i driver. Per loro le previsioni parlano di un taglio dell’89 per cento.

Come consentire a tutte queste persone di continuare a vivere dignitosamente una volte che avranno perso il posto di lavoro?

Una delle soluzioni possibili di cui si discute da tempo è quella del reddito di base universale: da un minimo di 1000 euro, o di più a seconda del costo della vita del Paese in cui si vive, per non fare nulla.

Ma, a prescindere dalla sostenibilità economica, un sistema del genere servirebbe a rendere le persone felici, soddisfatte della loro vita? Con un sistema di valori come quello attuale probabilmente no. Come sintetizza efficacemente lo storico israeliano Yuval Noah Harari: “Essere irrilevanti è peggio che essere sfruttati”.

E qui arriviamo a un altro paradosso del mondo contemporaneo: se da un lato c’è chi volontariamente lavora troppo – vedi gli americani e i sud coreani di cui sopra– c’è chi, invece, è costretto ad accettare condizioni e orari disumani giusto per sopravvivere: sono i migranti ridotti a una condizione di semi-schiavitù.

After Work dedica anche un capitolo specifico all’Italia. Il nostro Paese, infatti, ha una peculiarità. Si tratta del fenomeno dei NEET (Neither in Employment, Education or Training, coloro che non lavorano, non studiano, non fanno formazione) di cui deteniamo il primato in Europa, con il 28,9 per cento degli italiani tra i 20 e i 34 anni che si astengono da tutti e tre gli impegni di cui sopra, contro la media del 16,5 di tutti gli altri Stati membri dell’Unione.

After Work si sofferma, inoltre, sul caso particolare del Kuwait. Lo Stato, grazie alla sue enormi ricchezze, garantisce a un gran numero di cittadini impieghi pubblici di facciata.

In sostanza, non ci sono mansioni da svolgere e nessun rischio di essere licenziati (Secondo l’OMS, il Kuwait è il Paese più fisicamente inattivo del mondo, anche se tutti hanno un impiego e sono ben retribuiti). Una sorta di esperimento di reddito di base universale con la differenza che implica l’adeguamento a una forma di lavoro almeno “simulato’’.

Potrebbe essere questa la soluzione quando saremo diventati inutili?

A essere onesti, il documentario non sembra lasciare molte speranze neppure in tal senso.

Enrica Brocardo, wired.it (15/06/2023)

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After Work e l’interrogativo del film: e se un giorno non fosse più necessario lavorare?

Èplausibile un futuro senza lavoro? Erik Gandini, il regista italo-svedese di Videocracy (ve lo ricordate? Era il 2009), firma il documentario After Work (presentato in anteprima al Biografilm Festival di Bologna e nelle sale dal 15 giugno)  affronta proprio il tema del lavoro, oggi e in un possibile futuro in cui l’automazione e l’intelligenza artificiale saranno realtà consolidate.

Una ricerca stima che nei prossimi vent’anni molti lavori spariranno, come gli addetti al telemarketing e gli assicuratori. Nel 2033 i cassieri potrebbero essere sostituiti da macchine, così come gli autisti. Se così fosse occorre ripensare al ruolo del lavoro, che potrebbe non essere più l’elemento centrale della nostra vita. Che società sarebbe? Esisterebbe un salario minimo universale? Elon Musk si domanda: «Se le persone non trovano modo di sentirsi utili come faranno?».

«Facciamo fatica a immaginarci alternativa al lavoro perché il lavoro è insito in noi, è come l’aria», afferma Gandini, «l’idea di After Work è nata dalla necessità di parlare di lavoro come qualcosa da cui facciamo fatica ad allontanarci. Ho cercato esperienze di vita vera per raccontare ciò che sta accadendo e quello che potrebbe accadere».

Il regista ci conduce in Corea del Sud, dove si muore per eccesso di lavoro: l’ultima direttiva del governo garantisce che i computer vengano spenti automaticamente alle 18 in tutti gli uffici, inoltre le campagne pubblicitarie puntano sul “diritto al riposo”. Negli Stati Uniti il 55% degli americani hanno dichiarato di non sfruttare i giorni di ferie nel corso dell’anno (e sono pochissimi rispetto ai nostri), mentre in Kuwait accade il contrario: secondo l’OMS è il Paese più fisicamente inattivo del mondo, anche se tutti hanno un impiego e sono ben retribuiti (grazie alla presenza del petrolio). C’è anche l’Italia tra i super-ricchi che non lavorano e i cosiddetti NEET (Neither in Employment, Education or Training), il più largo gruppo di nullafacenti in Europa di età compresa tra i 20 e i 34 anni.

«Grazie alla tecnologia dobbiamo ridefinire che cosa significa “darsi da fare”», spiega Erik Gandini, «la svolta del Kuwait è la più inquietante, lì ci sono persone depresse e frustriate perché non comprendono quale sia il senso della vita. L’etica del lavoro è vecchia di 350 anni ed era un’idea perfetta, ora questa idea è incompatibile col presente e il futuro». Per molte categorie il lavoro è una forma di «schiavismo modernizzato»: nel film c’è l’esempio di un’autista di Amazon che in auto viene controllata da cinque telecamere.

«Forse la risposta è nelle parole dello studioso Kevin Kelly», dice il regista: «Le macchine sono per risponderegli esseri umani per domandare».

Emanuele Bigi, vanityfair.it (13/06/2023)

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After Work, vivere senza lavoro: un altro mondo è possibile

“Liberiamoci della società del superlavoro”. Una pubblicità per convincere la gente a smettere di lavorare. Una legge, la “pc off”, che impone di spegnere i computer negli uffici alle 18:00 in punto, per impedire fisicamente agli impiegati di operare oltre gli orari stabiliti. Succede in Corea del Sud, dove il lavoro – specialmente per chi ha più di cinquant’anni – è uno status. Di più: una condizione esistenziale, un’ossessione. Un modo per dire al mondo che il tempo della miseria è finito.
La Corea del Sud e il rapporto dei coreani con il lavoro è solo uno degli aspetti – e dei mondi – esplorati in After Work dell’italo svedese Erik Gandini (La teoria svedese dell’amoreThe Rebel SurgeonVideocracySurplus), in sala in Italia dal 15 giugno con Fandango.
Un documentario prodotto da Fasad Production AB con Propaganda Italia, RAI Cinema e Indie film, che viaggia attraverso quattro paesi – Corea, Kuwait, Stati Uniti e l’Italia –  guidato da una sola domanda: come sarebbe la nostra vita, se ci liberassimo del lavoro?

“Ho voluto pensare al lavoro come un’idea, più che una necessità. Qualcosa che sta perdendo senso rispetto a 350 anni fa, all’epoca della rivoluzione industriale – spiega Gandini – Credo che sia arrivato il momento di ripensarlo. Completamente”.

Le macchine al posto dell’uomo

Liberarsi del lavoro: un’ipotesi meno utopica di quanto si creda, a voler dar retta ai profeti dell’avanzamento tecnologico. Secondo la ricerca The Future of Employment (Il futuro dell’occupazione), pubblicata nel 2013 dall’Università di Oxford, il 47% dei lavori statunitensi sarebbe ad alto rischio. La probabilità che nei prossimi vent’anni gli addetti al telemarketing e i sottoscrittori di assicurazioni perdano il lavoro a favore degli algoritmi è del 99%.  Del 97% per i cassieri. Del l’89%, scrivono i ricercatori, per gli autisti di autobus. Senza contare i lavori creativi: “Quando abbiamo iniziato a immaginare il documentario, nel 2020, Chat GPT non c’era – dice Gandini – Pensavamo che la rivoluzione sarebbe cominciata con l’automazione. Invece i primi a scomparire saranno proprio i lavori creativi”.
In potenza, secondo il filosofo americano Noam Chomsky, la rivoluzione tecnologica è una liberazione: “La tecnologia ci deve liberare del lavoro. Può funzionare, a patto di usarla per affrancare le persone da lavori stupidi e permettergli di dedicarsi a qualcosa di creativo”. In pratica, secondo lo storico israeliano Yuvai Harari, è una condanna:  “La battaglia che ci aspetta, quella da combattere, sarà contro l’irrilevanza. Peggio essere irrilevanti che sfruttati”.

E allora: che faremo, quando non avremo più bisogno di lavorare?

Il Kuwait: il lavoro, ma per finta

In Kuwait, tecnicamente, oggi il lavoro potrebbe non servire più. In effetti, secondo l’OMS, il Kuwait è il paese più fisicamente inattivo del mondo, anche se tutti hanno un impiego: il sistema di distribuzione delle ricchezze petrolifere funziona come un reddito di cittadinanza di base, ma con un impegno lavorativo ’’simulato’’. Il risultato? Nei ministeri, dove venti persone sono chiamate a svolgere il lavoro di una sola, i dipendenti giacciono in una sorta di “parcheggio per lavoratori”, passando il tempo, semplicemente, sprecandolo.

Una inattività forzata che produce frustrazione, depressione, desideri autodistruttivi. “Speravo di trovare qualcosa di positivo lì, perché il Kuwait è un paese che ha tutte le opportunità per liberare le persone dalla necessità del lavoro – dice Gandini – Ma l’idea di fare a meno del lavoro è talmente forte che fa paura liberarsene. Piuttosto si preferisce far finta di lavorare, come se andare al lavoro fosse una specie di performance. Ed è tristissimo”.

Gli Stati Uniti: No Vacation Nation

Il viaggio negli Stati Uniti, terra di stakanovismo performativo per eccellenza, ci riporta a una società in cui l’85% delle persone, racconta After Work, “non hanno lavoro o ne sono profondamente insoddisfatti”. Il valore da salvaguardare, qui, è quello dell’efficienza: “Adolf Hitler? Un modello di efficienza perfetta”, ammette, dopo un istante di titubanza, un dirigente della società di analisi e consulenza Gallup. Secondo uno studio condotto dal Project Time Off della US Travel Association, nel 2018 i lavoratori americani hanno lasciato sul tavolo 768 milioni di giorni di vacanza non utilizzati: più della metà dei lavoratori non ha utilizzato tutti i giorni di ferie nel 2018, e il 24% ha dichiarato di non averne usufruito affatto. “Gli americani hanno un rapporto unico con il lavoro – spiega Gandini – Il concetto di sogno americano è stato a lungo associato all’idea di lavorare sodo e raggiungere il successo”. Successo che si paga ad alto prezzo prezzo: l’infelicità di una “no vacation nation”, un paese in cui la vacanza è un fallimento.

Il non lavoro in Italia e l’edonismo NEET

E in Italia? l’attenzione di Gandini si concentra inizialmente su un piccolo gruppo di persone iper-ricche,  appartenenti a dinastie imprenditoriali industriali che hanno vissuto per diverse generazioni senza dover lavorare. “Volevo sfidare il cliché del ricco. L’ereditiera che racconto nel film conduce un’esistenza libera dal lavoro. Il confronto con la Corea, dove le persone devono essere aiutate dalla pubblicità a immaginarsi senza lavoro, è potente: questa donna si sveglia ogni giorno chiedendosi cosa voglia fare, allenandosi alla creatività”. Un aspetto che rende l’Italia ancora più interessante è il fatto che non siano sono solo i super-ricchi a non lavorare: all’interno della classe media italiana si trova il più grande gruppo di “NEET” (Neither in Employment, Education or Training) in Europa, il 28,9% degli italiani tra i 20 e i 34 anni (la media europea è del 16,5%). “Nel dibattito pubblico il fenomeno dei NEET, i ragazzi ‘inattivi’, si racconta facilmente come una catastrofe, con l’indignazione per il nullafacente, ‘lo sdraiato’. Ma a me piace capovolgere il discorso e provocare con un’idea politicamente scorretta: se stiamo cercando alternative creative all’etica del lavoro statunitense e coreana, diventa interessante anche una società come l’Italia, dove esiste una cultura del non lavoro. Forse abbiamo qualcosa da imparare anche da qui: da chi, per scelta, non fa nulla”.

Ilaria Ravarino, hollywoodreporter.it (01/05/2023)

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Vivere senza lavorare grazie ad IA e reddito di base: la visione del futuro di After Work

Vivere senza lavorare è il sogno di (quasi) tutti: la possibilità di avere tempo libero per la famiglia, gli amici, gli hobby. Tutti abbiamo, almeno una volta nella vita, fantasticato della possibilità di non dover lavorare. Anche se poi, ad un’analisi approfondita, quanti si stuferebbero presto di non avere l’impegno fisso quotidiano dell’ufficio?

Molti, sicuramente. Basta fare un raffronto con una realtà che abbiamo ogni giorno davanti agli occhi: quella dei pensionati depressi.

Eppure, dopo una vita di sacrifici, davvero si può vivere senza lavorare, soprattutto di questi tempi in cui solitamente l’età della pensione coincide con un’età biologica ancora idonea alla svolgimento di molte attività, dallo sport leggero ai viaggi.

Non esiste più il lunedì, è sempre week end, ma non si riesce ad essere felici. Perché forse il piacere è bello gustarlo dopo averlo ottenuto con sacrifici.

Sacrifici che, forse, in un futuro neanche troppo lontano, non dovremo più fare.

After Work, il documentario visionario che immagina un mondo senza lavoro

Sareste quindi felici di vivere senza lavorare? Avendo ovviamente i soldi di uno stipendio.

Il documentario Art Work sonda proprio questa ipotesi con l’obiettivo, come dice il regista Erik Gandini, non di offrire delle soluzioni, ma di porre l’attenzione sugli aspetti disfunzionali di un’ideologia lavorista comune a società con modelli di sviluppo molto diversi.

La necessità di sacrificarsi per il lavoro è innata nella nostra natura o è semplicemente il risultato dei costrutti sociali che si sono creati, universalmente, con lo sviluppo economico e industriale?

Prodotto in collaborazione da Rai Cinema, Fasad e Propaganda Italia e distribuito a partire dal 15 giugno, After Work stimola la riflessione sulle potenzialità dell’Intelligenza Artificiale e sulle conseguenze di una sua applicazione tout court.

Abbiamo già visto come Chatgpt sia in grado di sostituire l’essere umano per alcune mansioni lavorative. Se spostiamo lo sguardo a qualche anno più avanti, non è difficile immaginare una IA che avrà sostituito la maggior parte dei lavoratori.

After Work delinea un’umanità libera dal vincolo lavorativo, il cui sostentamento non è ovviamente garantito dal classico stipendio, ma da un reddito di base universale.

Grazie ad esso l’umanità, senza il giogo della catena produttiva, sarà in grado di elevarsi socialmente e culturalmente, dedicandosi alla cura del proprio benessere psicofisico, con la possibilità di scoprire e sviluppare tutto il suo potenziale creativo?

Una vita senza lavoro: meglio o peggio?

La domanda che Gandini pone ai suoi intervistati è, in sintesi: “Come impiegheresti il tuo tempo se non dovessi più lavorare, continuando però a percepire lo stipendio?”.

Le risposte restano elusive, incerte: forse non siamo ancora pronti ad abbandonare una consuetudine estremamente radicata nel nostro concetto di esistenza?

Magari non i cosiddetti boomer o i rappresentanti della Generazione X, ma i più giovani, già invisi al posto fisso e più devoti al concetto di libertà che a quello di sacrificio, sono quelli che meglio accoglieranno (e sapranno sfruttare) tutte le nuove possibilità e potenzialità che una IA evoluta è in grado di offrire.

Alessandro Annunziata, investireoggi.it (23/05/2023)

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After Work: come sarà il mondo senza il lavoro, tra AI e reddito di base universale

Fuori campo, una voce roca e stanca mette in guardia: «Nel mondo di oggi, il consiglio migliore da dare a un giovane è prepararsi a trovare un lavoro. Prepararsi a passare la propria esistenza alla mercé di un padrone». Il vecchio saggio è Noam Chomsky, 94 anni, tra gli intellettuali più influenti di questo e dello scorso secolo. Per il resto, di indicazioni o suggerimenti nel nuovo documentario di Erik Gandini non ce ne sono. In After Work il regista italo-svedese – già autore, tra l’altro, di Videocracy e Surplus – offre lo spaccato di una società moderna imperniata sul concetto di lavoro salariato, e si interroga sul futuro di un’umanità potenzialmente libera da questo vincolo. «Il film nasce non per offrire soluzioni», spiega Gandini, «ma per dar risalto agli aspetti più disfunzionali di un’ideologia lavorista in cui tutti noi siamo immersi sin dall’infanzia, pur appartenendo a società con modelli di sviluppo molto lontani tra loro».

Tutto il mondo è paese?

Nel 2018 i lavoratori americani hanno rinunciato a 768 milioni di giorni di ferie cui avevano diritto. È la «No Vacation Nation». La cultura del superlavoro su cui si regge lo stesso sogno americano. In Corea del Sud da anni il ministero del Lavoro osserva con estrema preoccupazione il fenomeno della Gwarosa, la «morte per eccesso di lavoro». La settimana lavorativa è stata ridotta da 68 a 52 ore e il governo ha progettato un’accurata campagna pubblicitaria per promuovere stili di vita alternativi, invitando i lavoratori a non rimanere in ufficio oltre l’orario stabilito.
Il Kuwait, appena 4 milioni di abitanti e un’economia trainata da ricchi giacimenti petroliferi, vive invece un problema opposto. Qui il settore pubblico garantisce piena occupazione, ma la manodopera disponibile è spropositata rispetto alla mole di lavoro richiesta. Tutti hanno un impiego ben retribuito, ma il patto sociale si regge su una farsa interpretata da uomini e donne che spendono il proprio tempo ingabbiati in un perpetuo senso di inutilità.
Infine l’Italia, dove il tema del lavoro viene osservato con gli occhi di ricchissimi ereditieri, che hanno sempre vissuto di rendita. Ma anche dal lato di una classe media in cui si annida il più grande gruppo di Neet in Europa (giovani che non lavorano, non studiano e non si formano).

La tecnologia non ha volontà

Prodotto da Fasad e Propaganda Italia insieme a Rai Cinema, After Work sarà distribuito da Fandango a partire dal prossimo 15 giugno e promette di inserirsi in un dibattito quanto mai attuale e partecipato. Lo sconvolgente sviluppo dell’intelligenza artificiale potrebbe portare la maggior parte dei lavori esistenti oggi a scomparire tra qualche anno. Cosa fare, dunque, quando un’intera classe sociale si ritroverà ad essere, per così dire, «non occupabile» e priva anche della minima forza politica collettiva? La tecnologia non è dotata di volontà, sottolinea Chomsky, questa volta a favore di telecamera. Il suo impatto sulla società dipende e dipenderà strettamente dagli interessi di chi la controlla.
Può l’introduzione di un «reddito di base universale» cambiare lo stato delle cose e liberare, finalmente, il potenziale creativo di persone non più costrette a lavorare per sopravvivere? Come impiegheremmo il nostro tempo se da domani non dovessimo più preoccuparci di guadagnare lo stipendio? Gandini pone la domanda ai suoi intervistati rivolgendosi, metaforicamente, a tutti gli spettatori.
C’è silenzio, le risposte sono vaghe e incerte. Qualcuno sorride spaesato.

Nicola Bracci, corriere.it (23/05/2023)

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After Work, vivere senza lavoro: un altro mondo è possibile (esclusiva)

“Liberiamoci della società del superlavoro”. Una pubblicità per convincere la gente a smettere di lavorare. Una legge, la “pc off”, che impone di spegnere i computer negli uffici alle 18:00 in punto, per impedire fisicamente agli impiegati di operare oltre gli orari stabiliti. Succede in Corea del Sud, dove il lavoro – specialmente per chi ha più di cinquant’anni – è uno status. Di più: una condizione esistenziale, un’ossessione. Un modo per dire al mondo che il tempo della miseria è finito.
La Corea del Sud e il rapporto dei coreani con il lavoro è solo uno degli aspetti – e dei mondi – esplorati in After Work dell’italo svedese Erik Gandini (La teoria svedese dell’amoreThe Rebel SurgeonVideocracySurplus), in sala in Italia dal 15 giugno con Fandango.
Un documentario prodotto da Fasad Production AB con Propaganda Italia, RAI Cinema e Indie film, che viaggia attraverso quattro paesi – Corea, Kuwait, Stati Uniti e l’Italia –  guidato da una sola domanda: come sarebbe la nostra vita, se ci liberassimo del lavoro?

“Ho voluto pensare al lavoro come un’idea, più che una necessità. Qualcosa che sta perdendo senso rispetto a 350 anni fa, all’epoca della rivoluzione industriale – spiega Gandini – Credo che sia arrivato il momento di ripensarlo. Completamente”.

Le macchine al posto dell’uomo

Liberarsi del lavoro: un’ipotesi meno utopica di quanto si creda, a voler dar retta ai profeti dell’avanzamento tecnologico. Secondo la ricerca The Future of Employment (Il futuro dell’occupazione), pubblicata nel 2013 dall’Università di Oxford, il 47% dei lavori statunitensi sarebbe ad alto rischio. La probabilità che nei prossimi vent’anni gli addetti al telemarketing e i sottoscrittori di assicurazioni perdano il lavoro a favore degli algoritmi è del 99%.  Del 97% per i cassieri. Del l’89%, scrivono i ricercatori, per gli autisti di autobus. Senza contare i lavori creativi: “Quando abbiamo iniziato a immaginare il documentario, nel 2020, Chat GPT non c’era – dice Gandini – Pensavamo che la rivoluzione sarebbe cominciata con l’automazione. Invece i primi a scomparire saranno proprio i lavori creativi”.
In potenza, secondo il filosofo americano Noam Chomsky, la rivoluzione tecnologica è una liberazione: “La tecnologia ci deve liberare del lavoro. Può funzionare, a patto di usarla per affrancare le persone da lavori stupidi e permettergli di dedicarsi a qualcosa di creativo”. In pratica, secondo lo storico israeliano Yuvai Harari, è una condanna:  “La battaglia che ci aspetta, quella da combattere, sarà contro l’irrilevanza. Peggio essere irrilevanti che sfruttati”.

E allora: che faremo, quando non avremo più bisogno di lavorare?

Il Kuwait: il lavoro, ma per finta

In Kuwait, tecnicamente, oggi il lavoro potrebbe non servire più. In effetti, secondo l’OMS, il Kuwait è il paese più fisicamente inattivo del mondo, anche se tutti hanno un impiego: il sistema di distribuzione delle ricchezze petrolifere funziona come un reddito di cittadinanza di base, ma con un impegno lavorativo ’’simulato’’. Il risultato? Nei ministeri, dove venti persone sono chiamate a svolgere il lavoro di una sola, i dipendenti giacciono in una sorta di “parcheggio per lavoratori”, passando il tempo, semplicemente, sprecandolo.

Una inattività forzata che produce frustrazione, depressione, desideri autodistruttivi. “Speravo di trovare qualcosa di positivo lì, perché il Kuwait è un paese che ha tutte le opportunità per liberare le persone dalla necessità del lavoro – dice Gandini – Ma l’idea di fare a meno del lavoro è talmente forte che fa paura liberarsene. Piuttosto si preferisce far finta di lavorare, come se andare al lavoro fosse una specie di performance. Ed è tristissimo”.

Gli Stati Uniti: No Vacation Nation

Il viaggio negli Stati Uniti, terra di stakanovismo performativo per eccellenza, ci riporta a una società in cui l’85% delle persone, racconta After Work, “non hanno lavoro o ne sono profondamente insoddisfatti”. Il valore da salvaguardare, qui, è quello dell’efficienza: “Adolf Hitler? Un modello di efficienza perfetta”, ammette, dopo un istante di titubanza, un dirigente della società di analisi e consulenza Gallup. Secondo uno studio condotto dal Project Time Off della US Travel Association, nel 2018 i lavoratori americani hanno lasciato sul tavolo 768 milioni di giorni di vacanza non utilizzati: più della metà dei lavoratori non ha utilizzato tutti i giorni di ferie nel 2018, e il 24% ha dichiarato di non averne usufruito affatto. “Gli americani hanno un rapporto unico con il lavoro – spiega Gandini – Il concetto di sogno americano è stato a lungo associato all’idea di lavorare sodo e raggiungere il successo”. Successo che si paga ad alto prezzo prezzo: l’infelicità di una “no vacation nation”, un paese in cui la vacanza è un fallimento.

Il non lavoro in Italia e l’edonismo NEET

E in Italia? l’attenzione di Gandini si concentra inizialmente su un piccolo gruppo di persone iper-ricche,  appartenenti a dinastie imprenditoriali industriali che hanno vissuto per diverse generazioni senza dover lavorare. “Volevo sfidare il cliché del ricco. L’ereditiera che racconto nel film conduce un’esistenza libera dal lavoro. Il confronto con la Corea, dove le persone devono essere aiutate dalla pubblicità a immaginarsi senza lavoro, è potente: questa donna si sveglia ogni giorno chiedendosi cosa voglia fare, allenandosi alla creatività”. Un aspetto che rende l’Italia ancora più interessante è il fatto che non siano sono solo i super-ricchi a non lavorare: all’interno della classe media italiana si trova il più grande gruppo di “NEET” (Neither in Employment, Education or Training) in Europa, il 28,9% degli italiani tra i 20 e i 34 anni (la media europea è del 16,5%). “Nel dibattito pubblico il fenomeno dei NEET, i ragazzi ‘inattivi’, si racconta facilmente come una catastrofe, con l’indignazione per il nullafacente, ‘lo sdraiato’. Ma a me piace capovolgere il discorso e provocare con un’idea politicamente scorretta: se stiamo cercando alternative creative all’etica del lavoro statunitense e coreana, diventa interessante anche una società come l’Italia, dove esiste una cultura del non lavoro. Forse abbiamo qualcosa da imparare anche da qui: da chi, per scelta, non fa nulla”.

Ilaria Rivarino, hollywoodreporter.it (01.05.2023)