Da alcuni giorni è in sala il film 5 è il numero perfetto scritto e diretto da Igort (fondatore della casa editrice Coconino e successivamente di Oblomov, direttore editoriale di Linus, fumettista di fama internazionale), basato sul suo omonimo libro del 2002, molto apprezzato alle recenti Giornate degli Autori di Venezia ’76.
Non è facile parlare delle opere realizzate da persone a noi vicine, i rischi sono molteplici: la prossimità rende lo sguardo deformato, inibisce la distanza critica, induce a perdersi nei dettagli, smarrendo il disegno d’insieme. Si può essere troppo entusiasti, per uno spirito partigiano dettato dall’affetto nei confronti dell’autore, oppure troppo severi, poiché la stessa vicinanza umana impedisce di vedere la grandezza dell’opera.
A Igort mi lega un rapporto di profonda stima reciproca, di intesa intellettuale, di affine ricerca spirituale. Questo non vuol dire che siamo sempre d’accordo; al contrario, è proprio il confronto aperto e franco che rende autentica un’amicizia. Dichiaro, dunque, subito la mia mancanza di (peraltro impossibile) oggettività: ho vissuto con emozione l’attesa dell’uscita al cinema di 5 è il numero perfetto.
Emozione, e anche un certo tremore. Questo perché conoscevo la passione e la dedizione, quasi ossessiva, con la quale Igort si era dedicato al progetto (dieci stesure diverse in 13 anni), ma conoscevo anche l’azzardo grave della scommessa che si era prefissato: trasporre al cinema quello che è, probabilmente, il suo fumetto più celebre.
Le percentuali di fiasco inglorioso, confessiamocelo, erano alte. Visto che sono in vena di confessioni, dirò che anche 5 è il numero perfetto non è certo il mio libro preferito di Igort. Pur riconoscendo le qualità elogiate da Antonio D’Orrico sul Corriere della Sera (“Ci sono sparatorie bellissime e sogni labirintici, agguati in notti nere di pioggia e visioni mistiche nel cielo azzurro… Il più bel noir italiano mai scritto”), preferirò sempre la vibrante denuncia civile dei Quaderni Russi o la grazia meditativa dei Quaderni Giapponesi. Questione di sensibilità.
Toni Servillo, presentando il film a Roma, ha definito il fumetto il “Quaderno napoletano” di Igort. Si tratta di una definizione felice: in quest’opera emerge il tipico approccio dell’autore cagliaritano, una sorta di immersione totale nell’atmosfera più sottile di un luogo, a svellerne le “radici genesiache” (direbbe Artaud, scomparso questi giorni), a destarne e a corteggiarne il genius loci.
Napoli è protagonista: teatro onirico di barocche visioni mistiche e di una realtà ben più allucinata. Nella sua mescolanza, quasi da metropoli indiana, di alto e basso, santità e vizio, solennità e sberleffo, spensierata saggezza ed efferato sadismo, Napoli è l’unico scenario pensabile per la parabola paradossale di Peppino Lo Cicero (interpretato da un Servillo quanto mai centrato): eroe nell’abiezione, trionfale nello strazio, grigio impiegato della morte che, nel mondo moralmente a rovescio della malavita, diviene traditore disubbidiente per amore e per sopravvivenza. La stessa condizione del regista è paradossale: un maestro del fumetto, esordiente al cinema, che traspone nel medium in cui è meno esperto la sua opera più apprezzata, dunque diviene potenzialmente il peggior traditore di se stesso. Una sfida non per tutti.
Il film, ovviamente, mantiene e affronta tutti i temi che rendono il fumetto di Igort un’opera di grande intelligenza, a partire dalle contraddizioni che lacerano il protagonista: il tradimento e la vendetta, la coesistenza di dolci sentimenti e spietatezza omicida, il contrasto grottesco tra devozione mariana e abitudine al massacro, un sottotesto di sapienza taoista mascherata in lazzi in vernacolo partenopeo. Solo un ricercatore consapevole e ironico come Igort poteva nascondere in bocca a un anziano killer napoletano che sorseggia un caffè dopo una carneficina una splendida allegoria dal sapore gurdjieffiano (ovvero, il titolo della storia).
La sorpresa è che, nella trasposizione cinematografica di un fumetto, per la prima volta a mia memoria, la forza dell’opera originaria non si diluisce, forse aumenta: la splendida fotografia di Nicolaj Brüel (David di Donatello per Dogman di Matteo Garrone) evoca suggestioni tarkovskijane, i deliranti flashback ricordano le visioni felliniane di Toby Dammitt, il protagonista è un meraviglioso incrocio tra Dick Tracy e Totò. Ma, essendo un autore autenticamente colto e non uno che fa finta di esserlo, Igort non ha bisogno di disseminare la propria opera di allusioni e ammiccamenti: è un film, non è una caccia al tesoro per primi della classe.
Le influenze ci sono, ovviamente, ma assorbite, a volte quasi inconsciamente, senza plagi spacciati per citazioni. Gli attori sono notevoli: Servillo (del quale ormai è quasi noioso dover sottolineare la bravura) trova un ruolo in cui i vezzi di cui spesso lo si accusa (una certa gigioneria, la tendenza al trasformismo) diventano armi in più; Carlo Buccirosso sembra nato apposta per fare questa parte; infine, Igort è riuscito nel miracolo di farmi piacere anche Valeria Golino.
I pedanti professori del genere potrebbero obiettare circa una certa lentezza nel ritmo, soprattutto iniziale, ma non si può relegare 5 è il numero perfetto alla categoria noir: se lo si vede in quell’ottica, è chiaro che non ha i tempi adrenalinici di una macelleria tarantiniana. Ma la bellezza del film è altrove, è un’opera filosofica, una meditazione sulla vanità dell’apparenza mascherata da noir, prova ne sia come, nel momento dell’apice parossistico della vendetta il protagonista si trasformi in un Meursault, Lo Straniero camusiano, al contrario. Un film che rimarrà.
Al contrario, delle sciocche polemiche che hanno accompagnato una frase (meno felice di quella citata) di Servillo. Ma, si sa, in Italia ogni giorno c’è un torneo di volpi, riunite attorno ad ogni nuovo grappolo d’uva. Alcuni passano la vita a tirare fango, altri a estrarre diamanti.
Noi, se non altro per gratitudine, siamo dalla parte dei secondi.
Adriano Ercolani, ilfattoquotidiano.it (05.09.2019)