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Cinema, il rischio bolla per lo streaming fa tremare gli operatori del settore

L’euforia dovuta all’impennata della domanda seguita al Covid. Ma ora per l’industria del cinema e dell’audiovisivo il mood inizia a essere differente. E gli occhi sono rivolti lì, verso quelle piattaforme che – come appare da molte rilevazioni – sembrano aver perso lo slancio dei tempi migliori. Al quale il mondo del cinema e dell’audiovisivo si era agganciato con soddisfazione, rispondendo alla domanda in aumento di contenuti. Ora però, quell’euforia rischia di presentare un conto salato alla industry.

Il panel di discussione nel corso del Film Business Think Tank organizzato sabato scorso dalla Umbria Film Commission, diretta da Alberto Pasquale, ha messo in fila tutte le grandi preoccupazioni in questo senso espressa da rappresentanti della produzione e distribuzione, registi e sceneggiatori.

Fine della piena occupazione?

«Certo che abbiamo timore. Stiamo già verificando questo rallentamento» dice Andrea Occhipinti, presidente della Lucky Red, primo distributore indipendente in Italia. Un rallentamento «visibile in maniera molto chiara in questa seconda parte dell’anno», aggiunge Marta Donzelli, produttrice (ha fondato nel 2004 la Vivo Film con Gregorio Paonessa) ed ex presidente della Fondazione Centro Sperimentale di Cinematografia. Un cambio di mood non da poco dopo un periodo espansivo di cui ha beneficiato la industry e tutto l’indotto collegato, fino a figure professionali (sarti, artigiani) cui le produzioni si sono rivolti per far fronte alle proprie necessità. Per il settore che ha potuto vantare piena occupazione in questo ultimo biennio ci sarà da fare i conti con un momento di risacca anche sul versante occupazionale?

La riforma del tax credit

Quello dell’andamento dello streaming è uno dei punti, forse il più impellente in prospettiva ma non nell’immediato, sul quale il settore è chiamato a ragionare per individuare correttivi e nuove modalità evitando di farsi trovare impreparato. Nell’immediato il dibattito è molto concentrato sul tax credit, al quale il Governo pensa di “fare un tagliando”. Questione, questa, che ha acceso gli animi e sulla quale lo stesso ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano è intervenuto sul Sole 24 Ore manifestando l’intenzione di andare avanti nonostante le polemiche.

Un ombrello troppo ampio

Il vero pericolo da schivare è quello di dare l’impressione di cedere a interventi normativi che diano l’idea di una mancanza di certezza o di cornice, secondo Marco Grifoni, Chief financial officer di Palomar. «L’incertezza sulla regolamentazione, in un contesto di elevati tassi di interesse, rappresenta un costo, perché incide sulla capacità di pianificare». Accanto a questo c’è da considerare sia un aspetto pratico – secondo Occhipinti «è centrale stabilire quali siano i “veri film”, perché nella categoria sono inserite tantissime produzioni che finiscono lì solo per avere ottenuto il visto censura, ma sono documentari o altro ancora» – sia la questione di fondo che, come spiega ancora Donzelli, è legata al fatto che «non si può associare il valore di un’opera cinematografica solo al suo successo commerciale», anche perché l’investimento pubblico nel cinema dipende da quella che si chiama «eccezione culturale».

L’aumento dei costi

Il novero che deve essere meglio chiarito non può però far passare in secondo piani i risultati di box office che non vedono il cinema italiano primeggiare. Certo, un prodotto va giudicato solo in base al box office in sala o anche sulla base di altro visto che, come ricordato da Jaime Ondarza, ceo Fremantle Southern Europe & Israel, le richieste degli streamers sono diventate sempre più importanti sul mercato? Alla questione, sottolinea Federico di Chio, Evp strategy and corporate marketing Mediaset, va aggiunto un portato nient’affatto trascurabile: l’aumento del costo medio di produzione, salito dal 2019 ad oggi del 50%. L’inflazione ha impattato, ma in questa dinamica, ha ricordato Marina Marzotto, amministratore delegato Propaganda Italia, c’è il risultato dell’ingresso massiccio sulla scena degli investitori esteri. Il passo verso fenomeni speculativi in alcuni casi è stato estremamente breve.

Riportare il contenuto al centro

Certezza delle regole, interventi sul tax credit misurati ma senza eccedere, tavolo di sistema per prendere in mano la questione dei costi prima che deflagri. Partire da qui per ridare slancio (o comunque dare maggiore spinta) al cinema italiano? Non solo, spiega Barbara Petronio, sceneggiatrice e produttrice. «Bisogna tornare alla centralità del contenuto. Il produttore italiano è abituato a un sistema di lavoro che non parte dal contenuto, ma vive di relazioni. C’è uno scollamento totale fra i produttori italiani e i gusti del pubblico. La scrittura viene martoriata con la richiesta continua di variazioni. Non avviene così negli Stati Uniti».

Andrea Biondi, ilsole24ore.com (21/11/2023)

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Al MIA si discute del futuro del cinema italiano

Quale sarà il futuro del cinema italiano? Quale sarà il modello di business delle piattaforme nei prossimi anni? Come risollevare la nostra cinematografia sul grande schermo? Sono questi alcuni degli interrogativi emersi durante il convegno dal titolo “Cinema in Italia: un domani più luminoso?”, organizzato dal MIA – Mercato Internazionale dell’Audiovisivo e moderato da Paolo Sinopoli (responsabile delle riviste Box Office e Italian Cinema). A intervenire in questo panel affollato al cinema Barberini sono stati Alessandro Araimo (General Manager Italy e Iberia di Warner Bros. Discovery), Paolo Del Brocco (amministratore delegato di Rai Cinema), Piera Detassis (presidente e direttrice artistica dell’Accademia del Cinema Italiano-Premi David di Donatello), Giampaolo Letta (vicepresidente e amministratore delegato di Medusa Film), Federica Lucisano (amministratore delegato di Lucisano Media Group e di Italian International Film), Massimiliano Orfei (amministratore delegato di Vision Distribution) e Marina Marzotto (Founder e Senior Partner di Propaganda Italia).

Di seguito tutti gli interventi dei relatori:

ALESSANDRO ARAIMO
General Manager Italy e Iberia di Warner Bros. Discovery

1. Warner Bros. Discovery è l’unica major che continua a investire seriamente nel cinema italiano. Quest’anno i primi due incassi italiani dell’anno sono vostri grazie a Tre di troppo e all’ultimo capitolo dei Me contro Te. Quali sono i piani di WBD per lo sviluppo del cinema italiano? Quanto e dove prevedete di investire, ed è ancora strategico il cinema italiano per una major come la vostra?
Il cinema italiano, ma più in generale la local production, resta centrale nel sistema Warner Bros. Discovery. Produrre localmente per noi significa puntare su film con un appeal commerciale e con una qualità intrinseca che possano integrarsi con il nostro slate di titoli globali, radicando la nostra presenza in un mercato importante sia da un punto di vista di incassi che di industry. Essere presenti in tutti gli step della catena del valore è strategico. Per questo continueremo a selezionare i progetti e a investire su titoli con budget imponenti e con ambizioni commerciali. Punteremo sempre sulla commedia italiana, come abbiamo già fatto con successo negli ultimi anni, e amplieremo ulteriormente la franchise dei Me contro Te. Allo stesso tempo non smetteremo di sperimentare e a novembre usciremo con l’horror Home Education, perché crediamo che una parte del budget debba essere dedicata allo sviluppo di nuovi talenti e di nuovi generi.

2.
Qualche anno fa le piattaforme erano il nemico, poi si sono trasformate in un alleato in quanto investivano in produzioni italiane e acquistavano prodotto. Ma il modello delle piattaforme è in continua evoluzione: gli investimenti nel cinema italiano stanno calando, si sta introducendo la pubblicità, i giovani fruiscono sempre più serie Tv e sempre meno film on demand, e gli stessi film non sono poi così valorizzati nel catalogo. Ma tra un anno, massimo due, quale sarà il modello delle piattaforme? Per quanto e come continueranno a sostenere il cinema italiano?
Le piattaforme saranno sempre più selettive, ma non smetteranno di investire su contenuti nei mercati principali. Se vogliono svilupparsi in territori con una forte componente culturale come quelli europei, resta essenziale un’offerta che parli la stessa lingua del Paese. In questo senso sono certo che gli investimenti continueranno. In Spagna abbiamo la piattaforma HBO Max, quindi gestisco anche gli investimenti del servizio streaming oltre a quelli in local production theatrical, e in questo contesto è stata ribadita l’importanza della produzione locale e di una sua razionalizzazione. Ci saranno, quindi, produzioni con budget molto importanti – sia con ambizioni internazionali che con focus più nazionali – con l’obiettivo di generare abbonati, e poi ci saranno titoli di medie dimensioni chiamati ad alimentare il processo di consumo. Credo che questo tipo di segmentazione sarà implementato in tutte le piattaforme.
In Italia non abbiamo ancora una nostra piattaforma streaming, ma ce l’avremo in futuro e contribuiremo con investimenti in progetti scripted. L’industry italiana ha davanti a sé una grande opportunità: allargare gli orizzonti e sfruttare le piattaforme per creare uno o più progetti da 10-20 milioni di euro con un forte appeal sull’audience internazionale. In Spagna, ad esempio, abbiamo prodotto 30 monedas, una serie Tv con un budget da decine di milioni di euro che nasce con un’ambizione globale, tanto che sarà trasmessa in prime time sul canale americano HBO e sarà oggetto di attività marketing sull’Hollywood Boulevard. Infine, vorrei concludere con una riflessione. Spesso quando si parla di piattaforme si pensa subito a serie Tv. Ma se guardo ai dati delle nostre piattaforme, la capacità dei film di generare abbonati è molto alta, tanto che Max ha ricominciato a co-investire nelle nostre produzioni cinematografiche locali.

PAOLO DEL BROCCO
Amministratore delegato di Rai Cinema

1.
Parliamo di sostenibilità dei costi. Rai Cinema entra sempre in quota di minoranza, in percentuali più o meno elevate, in moltissime produzioni italiane. In questi anni, però, i costi produttivi sono lievitati di quasi un 30% e non mancano titoli da 15, 20 o addirittura 28 milioni di euro. Inoltre, se nel 2022 solo 17 film italiani su 321 hanno superato il milione di euro al box office, da gennaio ad ottobre 2023 abbiamo avuto 15 produzioni italiane oltre il milione di incasso. Questo modello è ancora sostenibile per la nostra cinematografia? E su quali direttrici si muoverà in futuro Rai Cinema?
Sicuramente stiamo migliorando molto al box office e la quota di cinema italiano si sta avvicinando al 20%. C’è sicuramente una polarizzazione sui film evento, con budget più alti e autori/attori importanti e questo è positivo. Il lato negativo, però, è che c’è tutta un’altra parte di film medio-piccoli, ma anche di opere prime e seconde, che soffrono ancora e credo soffriranno sempre più.
A maggior ragione in una situazione con costi di produzioni sempre più elevati causati dalla competizione di operatori globali e di grandi società internazionali. Poi alcuni film più “muscolosi” avranno sempre bisogno di una diversa struttura finanziaria e di un maggior production value, ma questi costi iniziano a essere insensati per i titoli più piccoli.
Come ci muoveremo noi? Mentre abbiamo in corso un ampia riflessione sulla linea editoriale, è ormai evidente che la sala non assorbe più lo stesso numero di film di un tempo. I film con budget medio-piccoli che andavano ai festival e avevano un loro pubblico, ad esempio, oggi non riescono più a emergere. Un altro problema è la crescente difficoltà a garantire gli sfruttamenti successivi alla sala per certi titoli, eliminando così un importante anello della catena del valore e non potendo offrire più una visibilità a lungo termine. Ho sempre detto che il nostro sistema cinema non ha mai avuto un problema di quantità di film prodotti, in quanto da questo volume nasce la qualità. Ma ora ci troveremo a dover ridurre questo volume di film prodotti, che negli ultimi anni tre anni ha visto Rai Cinema realizzare 220 film e 100 documentari, coinvolgendo 324 registi e 190 società di produzione. Dovremo concentrarci sui giovani con potenzialità e fare film sempre più eventizzabili.

2.
Ritiene che la struttura dei finanziamenti e del sostegno alla produzione italiana sia adeguata alle esigenze, o si necessita una revisione? Auspica nuovi interventi?
Sicuramente è stata immessa nel sistema una massa di finanziamenti pubblici determinante per mantenere un alto livello produttivo in Italia e per attrarre investitori internazionali. La mia sensazione è che il tax credit uguale per tutti e per qualsiasi prodotto vada rivista. Come? Non saprei, servirebbe un dibattito tecnico e dovremmo tutti porci alcune domande, ma sicuramente servono interventi di sistema. Inoltre, potendo usufruire del tax credit, sempre più produttori tendono a realizzare opere prime e seconde con risultati perlopiù modesti, e credo serva un maggiore sforzo di selezione. Infine, resto convinto che una finestra theatrical valida per tutti i film sarebbe di stimolo per il pubblico ad andare in sala, sapendo di dover attendere un tempo ben definito prima di poter vedere un film sulle piattaforme.


PIERA DETASSIS
Presidente e direttrice artistica dell’Accademia del Cinema Italiano-Premi David di Donatello

1. Il suo ruolo le offre una visione privilegiata sul cinema italiano, materia che ha sempre seguito con grande cura. Oggi i tempi sono cambiati e quei film che un tempo andavano a gonfie vele oggi non funzionano più allo stesso modo. Ma dove c’è grande qualità produttiva e artistica, binomio a mio parere inscindibile, il pubblico risponde. Guardando al futuro, su quali direttrici crede che il cinema italiano debba indirizzarsi per risollevare lo sguardo e non adagiarsi sul “già saputo”?
Basti pensare che l’anno scorso sono stati caricati sulla piattaforma dei David di Donatello ben 156 film, impossibili da vedere se non per una giuria che si dedica completamente a questa attività. Produrre film serve sicuramente a scoprire nuovi talenti, ma credo siamo arrivati a un punto di non ritorno. C’è un’implosione comunicativa, i film sono evidentemente troppi per essere assorbiti dal mercato, e c’è un tipo di cinema medio, una commedia un po’ indistinta, e i film d’autore e d’esordio, che non trovano spazio e non si riesce a comunicarli. E questo crea anche un disvalore rispetto al prodotto cinematografico. Inoltre, le piattaforme hanno affinato il senso critico del pubblico: oggi si seleziona subito il film per cui rimanere a casa e il film evento da vedere sul grande schermo. Bisogna quindi saper distinguere all’origine cosa viene prodotto per la sala, che per me è la prima forma di promozione, e cosa invece può andare direttamente in piattaforma. Posso dire, però, che avendo il privilegio di vedere in anteprima film di prossima uscita, mi conforta vedere un crescente partecipazione femminile alla regia che sembra portare una grande ventata di freschezza e una nuova spinta autoriale e commerciale.

2.
Sul piano artistico è evidente che mancano grandi star italiane come è stato in passato. Ma questo non è un segreto e stiamo dicendo delle ovvietà. Meno ovvio è cosa serve per costruire uno star system italiano. I nostri talent dovrebbero provare a entrare in più produzioni internazionali di ampio respiro? Dovrebbero giocarsi maggiormente in prima persona per promuovere i propri film? Oppure alla base c’è innanzitutto una questione industriale/produttiva che non facilita la costruzione di uno star system?
Credo non ci sia più quello star system a cui ci riferivamo un tempo e che sia morto con le grandi saghe e i franchise. Oggi quando pensiamo alle star indichiamo soprattutto fenomeni come Barbenheimer. Nell’epoca dei social, dove le star si raccontano da sole, si è democratizzato il rapporto con la narrazione della celebrità. Come creare uno star system in Italia? Credo che la soluzione non sia andare all’estero e fare grandi film internazionale, ma costruire grandi attori. Oggi è la personalità che vince sullo schermo. Abbiamo bisogno di un sistema industriale che consenta la crescita di star, ma abbiamo anche bisogno che gli stessi attori abbiano voglia di essere delle star. Ho sempre notato una certa resistenza e un forte senso di colpa nell’esercitare il ruolo dell’attore, che è anche un ruolo di rappresentazione di sé. Eppure la promozione deve essere parte integrante di questo lavoro, non si può essere snob su questo aspetto. Si fatica a concepirsi una star, ma questo fa parte della professione dell’attore, non è un capriccio o un privilegio. Addirittura c’è chi sceglie il giornalista con cui parlare o non parlare, magari chiedendo di rileggere le interviste. In questo senso credo che i produttori debbano includere la promozione tra gli obblighi di un attore coinvolto in una loro produzione.
Come David teniamo talmente tanto a questo tema da aver creato il Premio David Rivelazioni Italiane – Italian Rising Stars, la cui prima edizione si terrà attorno al 18 dicembre a Firenze, dove saranno premiate 6 rivelazioni under 28. E avvieremo un programma di tre anni in cui i vincitori saranno accompagnati nel loro percorso di crescita. Ma innanzitutto serve la consapevolezza che è una professione, Sofia Loren non è nata star.

GIAMPAOLO LETTA
Vicepresidente e amministratore delegato di Medusa Film

1.
Parlando di presente, ma anche di futuro, non si può non accennare all’urgenza di un ricambio generazionale nel cinema italiano. A muovere davvero il box office nel nostro Paese sono soprattutto attori nati tra il 1960 e il 1975, con pochissimi divi sotto i 40 anni. Entrando nel concreto, come si può agevolare questo processo di ricambio generazionale in Italia? Come coltivare nuovi talenti?
È vero, i dati confermano la sua riflessione, ma mi piace guardare il bicchiere mezzo pieno. Volendo analizzare la situazione attuale, negli ultimi anni si sono affermati tanti giovani attori e attrici. Penso ai gruppi di Skam Italia e di Mare fuori: anche se dovranno confermare di essere delle star, i presupposti sono certamente ottimi. Ma penso anche a Matilda De Angelis, Miriam Leone, Benedetta Porcaroli, al cast femminile de L’amica geniale. Inoltre, nella passata stagione abbiamo avuto la consacrazione di due attori under 40 con un grande successo commerciale e mi riferisco ad Alessandro Borghi e a Luca Marinelli, ma vorrei ricordare anche Pietro Castellitto, Filippo Scotti, Eduardo Scarpetta e Marco D’amore. Abbiamo ottime possibilità per costruire un nuovo star system, che è uno degli elementi essenziali per dar vita a successi cinematografici.
Ne approfitto anche per ricollegarmi al discorso sull’incremento dei costi di produzione: l’impressione è che negli ultimi tempi ci sia un forte disallineamento tra il costo produttivo di un film e le potenzialità commerciali dello stesso al box office e negli sfruttamenti successivi. Dobbiamo sempre tenere presente le reali potenzialità di mercato di un progetto quando si valuta la parte editoriale e di budget, anche se purtroppo questo non avviene sempre.
E per quanto riguarda il tema della promozione, vorrei lanciare una proposta: al premio David di Donatello dovrebbero partecipare anche tutti quegli attori e registi che non sono candidati. Sarebbe un bel segnale di compattezza del gruppo e questo contribuirebbe anche a creare uno star system.

2.
Che il pubblico sia cambiato è un’evidenza sotto gli occhi di tutti. Sono cambiate le abitudini, ma anche la percezione del valore di un film, complice anche una bulimia di contenuti sulle piattaforme streaming. Secondo lei in che modo l’industria italiana potrebbe cavalcare queste trasformazioni? Qual è la direzione artistica e industriale da imboccare?
Diventa sempre più difficile trovare progetti che abbiamo la capacità di diventare eventi di successo in sala. La direzione artistica ed editoriale è quella di lavorare con rinnovata energia e determinazione sulle storie, avendo il coraggio di rinunciare a un progetto quando non si intravedono reali potenzialità. Per fare questo ci vuole tempo, e spesso i produttori non ne hanno. La seconda direzione industriale è la necessità di un quadro di certezze a livello di risorse, in cui rientrano il nostro sforzo produttivo, gli investimenti del mondo pay e piattaforme, ma anche una struttura normativa stabile di risorse pubbliche e private. Per poter pianificare oggi il domani, è importante avere una certezza sul futuro.


FEDERICA LUCISANO:

Amministratore delegato di Lucisano Media Group e di Italian International Film

1.
Oggi siete una delle poche grandi case di produzione di proprietà al 100% italiana, mentre la maggior parte delle altre ormai è stata acquisita da colossi internazionali. Oltre a chiederle se valuterebbe eventuali richieste di acquisizione da parte di internazionali, vorrei sapere se in questo grande passaggio di proprietà generale vede un “domani più o meno luminoso” per il cinema italiano.
Sicuramente fa piacere suscitare interesse da parte di soggetti terzi, perché significa che stai facendo un buon lavoro. Ma in questo momento storico, la vendita non rientra tra le nostre priorità. L’idea di aggregare un polo di soci che possano essere un polo attrattivo sia per i talent che per i committenti è una sfida che mi stimola molto di più. È chiaro che le società internazionali che hanno acquisito le società di produzione italiane hanno creato un nuovo sistema e sviluppato un nuovo modello più aggressivo di cinema, quindi ben venga l’arrivo delle multinazionali. Però possono rappresentare anche una minaccia per la nostra identità culturale: bisognerà vedere se ci saranno cambi di management e di strategie, e quali saranno i piani a livello di investimenti e di linee editoriali. Ma sono fiduciosa che questo sarà un meccanismo virtuoso. Auspico che si privilegi sempre più il grande schermo, perché il cinema è alla base della catena del valore del nostro prodotto. Quindi come vedo il domani per il cinema italiano? Confido nella possibilità che le società si aggreghino, anche su un singolo progetto come La stranezza, per creare progetti più ambiziosi che possano anche uscire dai confini nazionali. Il tutto alzando l’asticella della qualità da un punto di vista di investimento ma anche artistico. Magari creando storie con appeal internazionali, coinvolgendo più attori e innescando un processo di eventizzazione del cinema italiano.

2.
Negli ultimi anni abbiamo certamente fatto passi avanti tra film in costume, thriller, opere per bambini e horror, ma c’è ancora molta strada da fare e la maggior parte dei film di genere non arrivano neanche a 500mila euro. Guardando a esempi come Blumhouse, che produce con pochi milioni di euro (spesso meno di molte produzioni italiane) film horror che incassano nel mondo centinaia di milioni di dollari, sembrerebbe più un problema industriale che di connessione con il pubblico. Lei che ne pensa e come si può migliorare in futuro su questo fronte?
Concordo che è un problema innanzitutto industriale, e poi di connessione con il pubblico. Noi storicamente abbiamo prodotto cinema di genere e horror, soprattutto mio padre negli anni 60 e 70, quando avevamo un know-how che poi abbiamo un po’ perso per strada. Ma recentemente abbiamo fatto alcuni tentativi, dalla fortunata trilogia del Crimine, al meno fortunato Gli uomini d’oro a Il matrimonio mostruoso e La famiglia mostruosa che hanno mischiato più generi. È chiaro che non si riesce ancora a trovare la strada, sia da un punto di vista produttivo che artistico. Forse dovremmo prendere spunto dagli americani e l’esempio di Blumhouse è meraviglioso. Basti pensare a film low-budget come M3ganOujia e Paranormal Activity che grazie a un’idea brillante sono riusciti a viaggiare in tutto il mondo. Potremmo importare anche delle risorse umane, delle professionalità che potrebbero indicarci una strada, anche se ci sono segnali molto positivi di italiani che si sono formati e hanno lavorato all’estero come Sollima  e Andrea Di Stefano che possono essere un faro per le nuove generazioni.

MASSIMILIANO ORFEI
Amministratore delegato di Vision Distribution

1.
Da sempre lei richiama l’attenzione su tutti gli sfruttamenti di un film, specificando che la performance in sala non è l’unico parametro per valutare il successo di un’opera che magari funziona perfettamente in pay, home video, streaming, free e vendite estere. Su questo punto vorrei fare l’avvocato del diavolo e chiederle: ma un film che esce in sala non dovrebbe essere pensato innanzitutto per incidere sul grande schermo? Se viene meno il focus principale sulla sala, non si rischia di sovraffollare un mercato con film “non da grande schermo”, come purtroppo spesso accade?
È chiaro che il pensiero di costruzione di un progetto cinematografico non può prescindere dall’analisi di quanto quel progetto possa funzionare in sala. Il problema è che non esiste, salvo rare eccezioni, un film che, anche funzionando bene in sala, riesca a trovare nei ricavi della sala il proprio break even. Per questo abbiamo l’assoluta necessità che la filiera che parte dalla sala cinematografica sia quanto più integrata possibile. Quindi servono prodotti che performino bene in sala e che, al tempo stesso, siano in grado di avvicinarsi al pubblico delle piattaforme. Anche perché il modello industriale degli ultimi 20 anni, con cui faremo i conti anche nel prossimo futuro, vede sostanzialmente piattaforme e Tv come committenti di riferimento. E il finanziamento di un film avviene sostanzialmente attraverso i loro investimenti. Rai Cinema ha dietro la Rai, Medusa ha Mediaset e Vision Distribution ha Sky. Purtroppo nel post-pandemia osserviamo una preoccupante divaricazione del pubblico che va a vedere i film in sala e del pubblico che vede i film in piattaforma. Trovare una soluzione non è semplice. Dobbiamo cercare di riconnettere quanto più possibile questi due pubblici; realizzare prodotto pensato per la sala, che trovi nel grande schermo la sua massima espressione di valore, ma che al tempo stesso sia in grado di funzionare anche su piattaforma. Se non ricongiungiamo questo filo avremo grossi problemi. Nel frattempo dobbiamo resistere senza paura di investire su giovani talenti e opere seconde, perché abbiamo bisogno di svecchiare il nostro parco di talenti.

2.
Ci aiuti a individuare due trend che vede già in atto e che secondo lei porteranno a modifiche sostanziali nel modello di business delle produzioni italiane entro i prossimi due anni. 
Ormai le piattaforme hanno compreso che l’offerta di prodotto cinematografico è fondamentale per i loro servizi on demand, ma è necessario che i film usciti sul grande schermo siano di valore e siano sostenuti da importanti campagne marketing. Quindi al momento osservo il ritorno degli investimenti sul prodotto cinematografico da parte delle piattaforme.
L’altro trend che noto è una ricostruzione della nostra capacità, in termini industriali ed editoriali, di raccontare storie in grado di incontrare anche il pubblico oltreconfine. La capacità di creare valore di crescita sul nostro territorio è molto limitata, quindi l’unico luogo in cui abbiamo un gap di crescita come industria nazionale è proprio il mercato internazionale. Ma non esiste ancora un distributore italiano in grado di assumere una posizione di leadership sui mercati esteri. Oggi il nostro migliore prodotto viene commercializzato da un paio di società di distribuzione francesi che prendono solo il meglio del prodotto. Forse dovremmo creare le condizioni per stimolare la nascita di un distributore internazionale di riferimento nazionale in grado di catalizzare sul proprio catalogo il miglior prodotto nazionale e di creare un abbrivio positivo di creazione di valore che poi consenta di reperire le fonti di finanziamento dei nostri film anche e soprattutto sui mercati internazionali.


MARINA MARZOTTO

Founder e Senior Partner di Propaganda Italia

1.
Nonostante le dimensioni contenute, Propaganda è sempre stata aperta a collaborazioni con partner internazionali nello sviluppo di coproduzioni, realizzando opere piccole ma ambiziose come PioveMonicaWoken e Obliquo 616. Non crede che in futuro il cinema italiano dovrebbe sforzarsi maggiormente per siglare importanti coproduzioni internazionali in grado di imporsi con più forza ai botteghini italiani e all’estero?
Sicuramente il sistema della coproduzione permette a un piccolo produttore di trovare risorse sul mercato, quindi di poter contare su budget più consistenti e di creare cointeressenze con altri Paesi. Mediamente se un film è anche finanziato da un Paese estero troverà anche una distribuzione all’estero e il progetto si internazionalizza, spesso anche a livello di talent e di costruzione narrativa. E secondo me in questo momento in cui tutti dichiarano contrazioni di spesa, la possibilità di trovare finanziamenti su più mercati è un vantaggio non solo competitivo ma anche di riduzione del rischio essendoci più player sullo stesso progetto. Credo, quindi, che nel prossimo futuro questo sia un modello molto utile nella sua condivisione del rischio.

2.
Lei ha dichiarato più volte di voler puntare a creare una factory di talenti e ha già iniziato a muovere i primi passi in questa direzione. Perché questo processo è così strategico per la vostra società e come intende muoversi in futuro su questo fronte?
Perché crediamo che questo lavoro si basi sul talento. Per noi, quindi, l’investimento non è solo strategico ma vitale. In questo senso facciamo anche un grande lavoro nel creare una casa per i giovani talenti con cui lavoriamo e per metterli in interconnessione. Abbiamo notato, infatti, che nel cinema italiano c’è una sorta di competizione malsana che non favorisce l’interazione e la condivisione. Per questo li mettiamo insieme, condividiamo i progetti, facendo sì che uno possa anche commentare e criticare il progetto dell’altro. Anche perché noi realizziamo un’opera collettiva a cui tanti talenti partecipano e che si arricchisce di questa condivisione.

e-duesse.it (10/10/2023)

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2023 Chicago film festival: 10 movies to see

“Critics Welcome” is the new tagline for the 59th Chicago International Film Festival. Everybody’s a critic, goes the saying, so that means everyone is welcome to appreciate and critique 104 features and 57 shorts over the 12-day run of the cinema extravaganza. 

Also new is festival venue Newcity 14, formerly the ArcLight Cinemas, in Lincoln Park. And for the first time, the Gene Siskel Film Center is devoting its two screens exclusively to festival screenings. The Music Box Theatre once again hosts much fest fare, including opener “We Grown Now” at 7 p.m. Wednesday.

Reprising last year’s free street fair celebration, the festival takes over Southport Avenue between Grace and Waveland on opening night from 5 to 10 p.m. 

Over 70 filmmakers will appear in person at various screenings.

The non-profit Cinema/Chicago, founded by Michael Kutza, presents the festival, continuing through Oct. 22.

Here are 10 recommended films picked from what I could preview by press time.

Dramas

“Goodbye Julia” (Sudan) Mohamed Kordofani portrays a Christian maid and her Muslim employer in Khartoum over five years. Damnable and damaging lies are observed with empathy. The backdrop is the political violence as the country of Sudan splits in two. North American Premiere (Oct. 12, 5:15 p.m. AMC; Oct. 14, 12:30 p.m., Siskel)

“Joram” (India) A young couple flee a tribal rebellion against a mining company. Five years later in faraway Mumbai they are targeted as terrorists. After seeing the final scene of Devashish Makhija’s expertly crafted political thriller, you will know a sequel is coming. North American Premiere (Oct. 12, 7:30 p.m. AMC; Oct. 13, 8:15 p.m. AMC)

“The Taste of Things” (France) Tran Anh Hung directs Juliette Binoche playing a genius chef in the 19th century French countryside. Her relationships with her companionate employer and a young girl seeking a mentor make this drama more compelling than mere “food porn.” (Oct. 13, 7:45 p.m. AMC; Oct. 14, 5:15 p.m. AMC; Oct. 20, 7:30 p.m. AMC)

“Family Portrait” (U.S) Lucy Kerr offers an allusive album of interchanges among members of a Texas family who assemble for their annual portrait. A virtuoso moving camera frames this concise 73-minute exercise set in spring 2020. An unnamed pandemic looms. North American Premiere (Oct. 14, 3:15 p.m., AMC; Oct. 16, 6:15 p.m. Siskel)

Do Not Expect Too Much from the End of the World” (Romania/ Luxembourg/ France/ Croatia) Writer-director Radu Jude is the auteur-provocateur du jour. In this rude 163-minute saga, a production assistant shoots videos of injured workers for a Bucharest ad agency. An executive Zooms from Chicago with a giant Trump Tower photo in the background. From the cheeky cynic who made “Bad Luck Banging or Loony Porn.”(Oct. 15, 7:45 p.m. AMC; Oct. 21, 8 p.m. Siskel)

Terrestrial Verses” (Iran) Co-directors Ali Asgari and Alireza Khatami skewer the theocratic logic of bureaucrats in a series of 10 encounters, most of them between an Iranian citizen and an off-camera official. A filmmaker seeking a permit is told: “We are trying to stop Western cultural hegemony.” (Oct. 19, 6 p.m. AMC; Oct. 20, 2:45 p.m. AMC)

Documentaries

“Alien Island” (Chile/ Italy) Cristóbal Valenzuela stages several knowing re-enactments that mix with archival footage and interviews to deconstruct a UFO-obsessed cult in the Pinochet era. Wonderfully weird. Spoiler: It’s deemed a documentary. U.S. Premiere (Oct. 17, 5:15 p.m. AMC; Oct. 18, 2 p.m. Siskel)

“Anselm” (Germany) Wim Wenders profiles the prolific German artist Anselm Kiefer in this masterful 3-D documentary. In style and insight he far surpasses his earlier portrait of an avant-garde choreographer in “Pina.” (Oct. 19, 6 p.m., Logan Center for the Arts, 915 E. 60th St.)

“After Work” (Sweden/ Italy/ Norway) Erik Gandini (“Videocracy”) dazzles with this disquieting essay on the meaninglessness of working — and not working. The camera travels from Kuwait to South Korea and analyzes the work ethic gone awry. North American Premiere (Oct. 15, 3:45 p.m. AMC; Oct. 16, 8:15 p.m. AMC)

“In the Rearview” (Poland/ France/ Ukraine) Shooting from the front seat of a minivan, Maciek Hamela mostly shows the passengers in the back seat as they head away from the Ukraine/ Russia front. The faces are as indelible as the tales told. (Oct. 15, 2:45 p.m. AMC; Oct. 16, 5 p.m. AMC)

Bill Stamets, chicago.suntimes.com (10/10/2023)

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Incontri FICE, un punto sul cinema italiano

Da inizio anno, i film italiani hanno raggiunto una quota di mercato del 18% e l’obiettivo è di arrivare a fine anno ad almeno quel 20-21%, che è il valore sul quale si era soliti assestarci negli ultimi anni. Se al momento, dunque, la strada è in salita, c’è tuttavia da ricordare che nel 2023 diverse nostre produzioni hanno portato a casa risultati importanti con Me contro Te – Missione Giungla (4,8 milioni di euro), Tre di troppo (4,7 milioni), Il sol dell’avvenire (4,1 milioni), L’ultima notte di Amore (3,4 milioni). Oltre ai successi più recenti di Bellocchio con Rapito e Garrone con Io Capitano.

A questi numeri, ne va aggiunto subito un altro. Un dato molto importante: dal pre-Covid al 2023, il numero di produzioni italiane uscite in sala è cresciuto vertiginosamentepassando dai 172 titoli distribuiti in media tra il 2017-18-19 ai 250 titoli già usciti nel 2023. Siamo a un +45%. C’è un oggettivo problema di quantità: in Italia escono (e si producono) troppi film. Troppi film che il mercato theatrical non è in grado d assorbire. Specie se d’estate nessuno vuole programmare i propri titoli….

C’è una quantità eccessiva che spesso porta a una bassa qualità dei film stessi. Questo è stato il primo tema affrontato dal convegno “Il cinema italiano a una svolta” che si è tenuto durante gli Incontri del Cinema d’essai in corso a Mantova dal 2 al 5 ottobre 2023.

ALZARE L’ASTICELLA DELLA QUALITA’

Benedetto Habib, produttore di Indiana Produzione e Presidente Unione Produttori Anica lo ha detto chiaramente: «I segnali di debolezza del cosiddetto prodotto medio erano evidenti già prima della pandemia, per poi acuirsi in questi ultimi anni: una parte di pubblico si è disaffezionata al cinema italianoSiamo riusciti a riavvicinare quegli spettatori solo quando abbiamo alzato l’asticella della qualità con film dai budget più alti, storie che uscivano dai soliti generi, valorizzazione degli autori. In Italia si producono troppi film: è una distorsione che va aggiustata. Ma dobbiamo anche lavorare sul concetto di “urgenza”: dobbiamo creare le condizioni affinché lo spettatore voglia andare subito in sala a veder quel film». 

GLI ITALIANI NON VOGLIONO USCIRE D’ESTATE. ASPETTANO VENEZIA

Altra criticità emersa è l’estate. Nonostante l’iniziativa di Cinema Revolution che ha promosso i film italiani con biglietti scontati a 3,5 euro nei mesi caldi, sono usciti nelle nostre sale pochi titoli made in Italy. Le produzioni nazionali preferiscono aspettare il mese di settembre, ma soprattutto preferiscono aspettare e sfruttare un eventuale anteprima ai Festival, soprattutto Venezia. «I festival sono diventati uno strumento di marketing irrinunciabile per i film italiani» ha dichiarato il direttore della Mostra Internazionale d’arte di Venezia Alberto Barbera. «Negli ultimi due anni è cresciuta moltissimo la pressione da parte dei produttori e dei distributori per avere un passaggio al Lido: se prima ricevevamo un 100-150 film da visionare, quest’anno siamo arrivati a 230. I riflettori di Venezia, così come di Cannes, sono una promozione strategica, ma servono anche per aumentare il punteggio nel meccanismo dei contributi automatici ministeriali».

LA COMUNICAZIONE E IL RAPPORTO COL PUBBLICO

I festival, però, non possono certo essere l’unico strumento di marketing e promozione. In Italia, purtroppo, i film non vengono promossi abbastanza, e con abbastanza anticipo. E questo è un problema soprattutto per le produzioni indipendenti e per le opere prime e seconde. Lo sa bene Marina Marzotto, produttrice Propaganda Produzioni, Presidente AGICI: «Bisogna investire di più nella costruzione di teaser e trailer, e iniziare a lanciare materiale e informazioni già quando si è sul set in modo da iniziare a far parlare di un titolo con mesi, anni di anticipo. L’obiettivo è sedimentare un film nella menta degli spettatori. Dobbiamo cambiare mentalità: quando io propongo queste tempistiche così anticipate, mi scontro spesso con frasi del tipo “se iniziamo ora, quando il film uscirà, sarà già vecchio”». Bisogna uscire dalla logica di una promozione copia-incolla per tutti i film, ma studiare strategie ad hoc a seconda del titolo e del suo pubblico di riferimento, come ha anche sottolineato Habib.
Altro elemento di promozione efficace per riagganciare un rapporto col pubblico sono gli ospiti in sala. «Purtroppo anche qui ci sono resistenze: alcuni autori e talent sono poco disponibili in questo senso. Invece, la presentazione in sala di registi e autori è utilissima, tanto che io ho iniziato inserire nei contratti un obbligo in questo senso, proprio come è d’uso per le star hollywoodiano». 

ALLA RICERCA DI NUOVI AUTORI

Altro aspetto su cui lavorare a livello produttivo, è la ricerca di nuovi autori. Il sostegno alle opere prime e seconde è fondamentale perché solo così si possono scoprire nuovi autori e coltivare nuovi sguardi che hanno un valore ben al di là del risultato al botteghino. Solo così si potranno trovare i “nuovi Garrone” e i “nuovi Sorrentino”.

ALTRI TEMI URGENTI

In questo lungo panel nel quale sono anche intervenuti Francesco Martinotti di ANAC-Associazione Nazionale Autori Cinematografici (che ha sottolineato lo scarso investimento da parte delle produzioni nella fase creativa e di scrittura dei film), di Lionelli Cerri del circuito Atteso spazioCinema (che ha rivendicato il ruolo attivo degli esercenti come imprenditori culturali), della giornalista Laura Delli Colli (che ha ricordato il ruolo dell’informazione e della critica: “perché la Tv pubblica non è in grado di realizzare una trasmissione che parli di cinema in un orario che non sia la tarda serata?”) e di Andrea Romeo di I Wonder (“grazie ai distributori che quest’anno e questa estate hanno reso possibile risultati importanti per tutto il mercato”), non c’è stato purtroppo il tempo di affrontare altri aspetti cruciali del cinema italiano. In primis un’attenzione ancora troppo scarsa per la produzione di film di genere, di film indirizzati specificatamente ai ragazzi under 30, di film con protagoniste femminili più libere e meno stereotipate, di film popolari costruiti ad hoc per essere distribuiti proprio d’estate come del resto succede già in Spagna dove il primo weekend di luglio è diventato uno slot dell’alto potenziale commerciale. Lo dimostrano i 7 milioni di euro per più di 1,1 milioni di presenze di Vacaciones de verano, commedia di e con l’acclamato Santiago Segura che Sony ha distribuito nella sale spagnole il 6 luglio di quest’anno.

Valentina Torlaschi, e-duesse.it (04/10/2023)

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Trace Lysette’s Monica Performance Was Breathtaking—And Absolutely Deserves An Oscar

As we firmly enter Moira Rose’s favorite season (Awards Season), one movie and performance are standing out, and we hope that it gets the Oscar attention it so rightfully deserves.

Monica, directed by Italian filmmaker Andrea Pallaoro, gave Trace Lysette a role where she was able to fully stretch her acting muscles and show off her artistic prowess. Now, she deserves to be nominated for an Academy Award for it.

The movie, about a trans woman returning to her hometown to take care of the ailing mother who kicked her out for being trans 20 years ago is a quietly powerful piece full of resonating restraint and explosions of emotion from Lysette, who plays the title character of Monica.

The movie, and Lysette’s performance, come at the perfect time to hopefully mend some fences when the country is perhaps more divided on trans issues than it ever has been before. Lysette knew that she would have to carry a heavy load to nail this performance.

“It’s almost like they need to see it to believe it, because there’s this disconnect with our humanity,” Lysette said about cis viewers who should see the movie. “And I think the only way for the naysayers and for the people who don’t quite get us, is to see themselves in us. And I think that bonding with your mother on screen is something that everyone can identify with or want to identify with. And it says more than words can say. So those moments are deeply powerful.”

Lysette more than succeeds at showing the deeply human and loving relationship between a mother and daughter – she’s a triumph.

When the film premiered at the Venice Film Festival last year, it was the first film starring a trans actor to do so, and when it premiered in America, it won fans across the country and throughout Hollywood, including Sarah Paulson, Whoopi Goldberg, and Mae Martin. Now, IFC has officially kicked off its Oscar campaign for the movie.

Back in May, The Advocate asked Lysette about what a potential Oscar nom would mean.

“That would feel incredible, and I try not to dream too much about all of that,” she said. “I let myself dream a little bit, because I think part of manifestation is knowing that you’ve done the work and that maybe I should be definitely in the awards conversation. And I’m so grateful that that has already happened a little bit, but at the end of the day, I really just want to keep working.”

Alongside other highly praised performances this year by actors including Lily Gladstone (Killers of the Flower Moon), Natalie Portman (May December), and Margo Robbie (Barbie), Lysette’s performance in Monica is absolutely deserving of an Oscar nomination.Monica is currently streaming on AMC+ and can be rented or bought from online retailers including Amazon, Vudu, Apple TV, Youtube, and Google Play. Check it out now, so that when Lysette becomes the first out trans woman nominated for an acting Oscar, you can say you were a fan before the big news!

Mey Rude, out.com (02/10/2023)

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Trace Lysette Is Fighting for Oscar Consideration—And Deserves It

A few weeks ago, IFC officially kicked off the Oscar campaign for its critically acclaimed film Monica—a bigger deal than it might appear at first glance. This is a movie of firsts, beginning with its world premiere at last year’s Venice Film Festival, where it became the first competition title in the festival’s 79-year-history to ever feature a transgender lead. Following strong reviews and a rapturous standing ovation, Monica was acquired by IFC and released in theaters this past spring; its Hollywood journey now continues this fall with a modest awards push. The face of that push, star Trace Lysette, adds considerable weight to the endeavor, since no openly trans performer has ever been nominated for an Oscar.

Best known for recurring roles on Transparent and Pose, Lysette just wants a fair shake. She knows that, in this era of year-round, studio-driven campaigning, the deck can be stacked against a film like Monica, which took years to get made on a small budget and which doesn’t have a ton of resources to work with in terms of marketing. (Accordingly, the film received a SAG-AFTRA interim agreement, allowing Lysette to do press as the actors strike continues.) As an executive producer on the project, she’s seen firsthand the tough spot that indies find themselves in right now, amid so much structural change. Monica is the kind of quiet, affecting human drama that the industry is losing more of by the year—but in its careful, specific portrait of a community so underserved by Hollywood for so long, it also demonstrates the form’s enduring vitality.

Monica (streaming on AMC+ and available for digital rental) was directed by the rigorous Italian filmmaker Andrea Pallaoro, whose Hannah won Charlotte Rampling Venice’s best-actress prize in 2017. He gives Lysette the space for a similar showcase here, in the story of a trans woman who returns home for the first time since being kicked out as a teenager. She comes back because her mom, Eugenia (Patricia Clarkson), is declining from Alzheimer’s; she doesn’t recognize Monica as her child, but in the film’s tough exploration of familial love, still develops an unspoken connection with her. Pallaoro’s spare aesthetic and tight framing hinges the emotional impact on his actors’ performances, and Lysette commits with resounding vulnerability and nuance. Opposite the great Clarkson, she shines in the sort of part that’d never been offered to her before.

On this week’s Little Gold Men (read or listen below), Lysette goes deep on the meaning of mounting an Oscar campaign for the film—and what the journey so far has felt like.

Vanity Fair: Back when you took this movie to Venice and this movie got a big standing ovation, you reacted with a feeling of, “Well, what does this mean for this movie and for me? What comes next?” Obviously, a lot has happened in this industry since then, but in terms of those kinds of questions, have you found any answers?

Trace Lysette: For most working actors who bounce around from gig to gig, costar to costar, guest star to recurring, or whatever small roles are building up to whatever fruitful career, I think you’re always wondering, “When do I get to feel safe?” Then when you’re trans and you come from a life of survival, with that extra layer of struggle I would say, you’re always wondering, “When do I get to feel safe?” For me, it really is about survival: It’s keeping my health insurance, it’s wanting to know if I’ll get to think about buying a house someday. As I turn 42 next month, do I ever get to dream about having a house and a family and taking care of my mom? As somebody who grew up poor, single mother, no father in the picture, didn’t go to college—I financed my acting classes on my own in my mid-20s living in New York by myself. I won’t go down the rabbit hole of all my trauma, but I just didn’t get nurtured in the same way that some of my cis actor counterparts did.

I have to be truthful about the fact that it’s just been a different journey for me. Call it a late bloomer, call it catching up, but a lot of trans people feel like they’re playing catch-up in their life…so I guess to answer your question, the answers are trickling in. I woke up this morning to an announcement from Outfest that I’m going to get a Trailblazer Award, which is really sweet. Shirley MacLaine is receiving an award the same night—that’s great company. I’ve had a couple people hit me up about projects they want to develop, just whispers of things, but we’re not really allowed to do anything right now, so I just have to pump the brakes on all of that. But when the strike is over, maybe things will get settled and it will feel a little bit more like, “Okay, things are shifting.”

You’ve done a few studio-backed projects that we can’t talk about here because of the strike, but I bring them up vaguely to flash-forward to Monica, which is very much an independent movie. The kind of acting you get to do in a movie like this, with a director who has a very specific vision and opposite Patricia Clarkson—how did you find yourself challenged or invigorated by that?

There wasn’t any room for phoning anything in. The framing even of the film was just so tight; it really favored the performance, but it also left zero room for anything false. I appreciated that. It was a challenge that I welcomed. I had a very gentle director, Andrea Pallaoro, who was amazing and kind. That in itself is the biggest gift an actor can get, because you feel held and you feel like you can explore. My instrument feels most free when you have that in a director. With Monica, it was so internal and there was so much going on, even the scenes where there wasn’t a lot of dialogue for her; I was trying my best to honor all of that, and she demanded it. She had this quiet strength that I definitely identify with.

Yeah, it’s at times a very dialogue-light movie. What was it like to sit in those moments where there isn’t a lot to say, but you have these incredibly emotional scenes to play?

I love to sit there and work from the gut like that. Being able to do it across from a woman like Patricia Clarkson—who’s had this five-decade career, Academy nominee—was such an honor, and I felt so grateful. We were pretty clear on who these characters were, but I also knew that there was room to explore when I got to set with her, because we work in similar ways. It just was cohesive like that. It was beautiful and raw. There were several scenes where, after they called cut, you’d just look around the room and the crew would be in tears.

How did you feel aligned with Patricia?

It’s good to do what you need to do before you come to set, however, there’s something to be said for letting the wheels fall off and having the confidence to do that. She and I both are willing to do that and explore. And there’s a steadiness to her that I loved—watching her in between takes, even, I was really impressed. It reminded me of the same feelings I felt when I worked with Judith Light for many seasons.

On an unnamed streaming series.

On struck work, or unnamed stuff, yes. [Laughs] But just when you’re around a caliber of actor like that, you get to take away these little gifts of things that you can add into your own arsenal or your own toolkit as an actor. The kinds of things you just have to witness. Again, just the steadiness or seeing how she just focuses on one spot in between takes and doesn’t really waver. It’s this imaginary shield that goes up around her.

You’re also an executive producer on Monica, which is a really good example of the worth and the difficulty of getting indie films made right now. How have you observed the process? You first auditioned for Monica in 2017, right?

I did, extensively. I had to fight for this one. Indie film is, like you said, a fight. It is a labor of love. I feel like I’m still fighting for it to get the same love from the trades that the bigger films get. Our Oscar campaign started last week; nobody announced it. I’m seeing all these other announcements go out for these larger films, and that’s wonderful, but I just want us to be treated the same way. I want to level the playing field, and it’s very hard to do. It’s maddening sometimes. It’s been nice to see IFC step up a little and see that “For Your Consideration” flyer go out to the whole Academy. It made me feel like, “Oh, finally. They understand there’s something here.” This film is special, it deserves some TLC, it deserves eyeballs on it. That’s all we’re asking, is for people to watch it.

We need to constantly think about this as an industry. How do we preserve indie film and not let it fall by the wayside? So much of our industry is about money and power and influence, and who’s got the best publicist, and all of that stuff. It takes away from the art, in my opinion. But here we are. We will fight the good fight because this story’s important, and I have enough messages and letters from trans people around the world to tell me that it’s worth seeing through. It’s a marathon and not a sprint, and we’ve got to just show up.

There hasn’t been an openly trans actor nominated for an Oscar. Do you feel a degree of pressure walking into that scenario in a campaign, when it truly has never happened before?

It’s good pressure, it’s similar to how I felt going to Venice. They hadn’t had a trans lead in [competition] in their 79 festivals as of last year. We do have to knock on that glass ceiling, and trans people, in spite of what the public may think, we’re not new. We’ve been around since the beginning of history, it’s just that our history gets left out. We’ve always been here and deserving, and a lot of times it’s about a lack of access for trans people. Our lot in life is just different. For me, I’ve worked really hard to get to this point. I’m going to continue to show up for myself by any means, and try to stay the course. That’s what I keep telling myself every day.

Was Venice the first time you saw the movie with an audience?

Yes, actually it was. I had seen cuts of it and we’d given notes, fought for a scene or two to get put back in. But that was my first time watching with an audience, and I was blown away when the lights came up. There was this eerie quiet, because there’s no music when the movie ends, it’s just dead silence,. Then the applause happened, and then they just kept clapping and clapping and clapping. Then I started crying, and then they clapped some more.

The thing I really love about your performance in this movie is the way you put it earlier, that quiet strength. You said you feel that in yourself. What about this character and her story did you really connect to?

Like a lot of trans people, I definitely had my own journey with my blood family and my mother. Thankfully, we’re in an amazing place right now, so I don’t like to dredge up the past, but there were some hard years there. I’ve used the word estrangement, and that’s a very unique kind of pain to feel that with your parent, to not know how this is going to end up. But in the end, love won for us, and I like to think that love won for Monica and Eugenia as well. I’m protective of my mom and all of that, because I know that she’s always loved me, even when we had hard times. Something told me deep down, “I know she loves me even if we are not on the best of terms.” In the end, I was right.

I was, I guess, what you would consider non-binary in the ’90s, in high school—rocking women’s hairstyles with long nails. I was wearing some boy clothes and some girls’ clothes. This flaming queen doing her own thing in the Rust Belt of Dayton, Ohio—they didn’t know what to do with me, so I up and left for New York as soon as I could. I deeply, deeply resonate with having to go make your own life for yourself and find the woman that you are…. There’s that one scene of Monica trying to find joy when she’s dancing around the room and getting ready to go out and hit the town. Understanding what that rebellious joy is as a trans woman in a world that feels like it’s always caving in on you—that’s also a universal theme that a lot of people can identify with. We have to find the joy in our lives to keep going.

David Canfield, vanityfair.com (26/09/2023)

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La vita è un’ideologia fondata sul lavoro

Le dita di un impiegato pigiano ripetutamente i due tasti di un mouse. L’inquadratura, strettissima, si allarga a immortalare lo sguardo di un uomo sui sessant’anni, che fissa vacuo lo schermo di un computer. “Mi sveglio ogni mattina alle 6. Mi faccio una doccia, vado al lavoro alle 7, resto in ufficio fino alle 23. Torno a casa, ceno, vado a dormire a mezzanotte. Faccio questa cosa ogni giorno”, dice la sua voce fuori campo. Con un piano sequenza la telecamera immortala, alla sua destra, sua figlia, a braccia conserte, a fissarlo con un misto di compassione e riprovazione: “Non voglio per me questa vita, mio padre dice che ha fatto tutti i suoi sacrifici per noi, noi siamo il premio per i suoi sacrifici, dice. Non sono d’accordo”.

Si apre così After Work, l’ultimo documentario di Erik Gandini (regista italo-svedese autore fra gli altri di Videocracy, sull’era berlusconiana): una scena piuttosto didascalica che focalizza l’attenzione dello spettatore su un aspetto secondario – quello generazionale – di una questione cruciale della nostra epoca:il rapporto tra tempo e lavoro. Gandini si chiede se sia possibile immaginare come impiegheremo il nostro tempo quando il lavoro umano, per come l’abbiamo finora concepito, sarà reso superfluo dalla tecnologia. Se lo chiede, sì, anche se sembra non volere o non essere in grado di dare una risposta, tanto che il film si conclude con i primi piani di alcuni intervistati che, alla domanda se sia possibile smettere di lavorare, fissano la telecamera senza dire nulla. L’impasse del dibattito è forse il fulcro di questa analisi.

Gandini si chiede se sia possibile immaginare come impiegheremo il nostro tempo quando il lavoro umano, per come l’abbiamo finora concepito, sarà reso superfluo dalla tecnologia.

Gandini intervista persone di estrazione sociale differente (working poors, impiegati statali, imprenditori, ricchi ereditieri), provenienti da diverse parti del mondo – Stati Uniti, Italia, Kuwait e Corea del Sud, vale a dire, per metonimia, Nord America, Europa, Medio ed Estremo Oriente. L’operazione è un po’ azzardata: contesti geopolitici molto specifici sembrano eletti a universali, chiamati a mappare idealmente l’intero mondo industrializzato sotto l’egida culturale e economica capitalista. Come è azzardata l’idea di poter utilizzare l’operaia Astrid, il manager Pa Sinian, l’imprenditore John, e poi ancora Armando, Meqdaq, Fatima, Rory, Ferdinando, Boseong – tutti significativamente evocati senza i cognomi – non come individui, ma quali, di nuovo, metonimie della classe sociale a cui appartengono. Alle interviste del regista si aggiungono, inoltre, fonti secondarie, materiali d’archivio, brevi interventi di intellettuali e personalità di spicco come Noam Chomsky, Yuval Noah Harari, Yanis Varoufakis, Elon Musk, le cui parole aiutano a orientare lo spettatore attraverso un tentativo di affresco contemporaneo.

Il documentario procede per giustapposizione di testimonianze, ma è impossibile capire in che modo Gandini si stia servendo delle parole degli intervistati. Infatti allarga quanto più possibile il campo della questione, pur partendo da casi singoli chiamati per nome e solo per nome, astrae il problema dai particolarismi di una vita o di una classe sociale specifica. Ad esempio, alle interviste a due ex ministri del lavoro sudcoreani sulle politiche contro la cultura del superlavoro nel loro Paese, Gandini accosta la testimonianza di un imprenditore americano, simbolo della middle class affamata di successo, uno yuppie rampante che ride sguaiato all’idea che in Europa sia socialmente accettato prendersi sei settimane di ferie all’anno. Alle lamentele concitate del manager di una grande azienda, che preoccupato spiega come l’85% dei lavoratori globali svolga mal volentieri le proprie mansioni, affianca la voce emozionata della dipendente di Amazon che definisce il proprio compito di consegna dei pacchi un piccolo gesto rivoluzionario, che migliora la vita delle persone, una missione a cui dedicarsi completamente. Poi conosciamo Rory e Ferdinando, una coppia: lei ricca ereditiera la cui unica occupazione sono i suoi svariati e esotici hobby; lui ricco imprenditore contrario al reddito di cittadinanza il cui hobby è il lavoro. All’estetica dell’uomo super-impegnato, sexy e stimabile proprio perché oberato di lavoro (“I’m so busy” è il mantra remixato che si ripete in modo martellante), sono poi affiancati i NEET, “Not in Employment, Education or Training” (anche questa frase è remixata e fa da ulteriore colonna sonora al documentario), persone giovani che scelgono “volontariamente” di non lavorare né di formarsi al livello scolastico o professionale. 

Man mano che compara contesti anche molto diversi – e mescola opinioni diversissime senza tirare le fila – ha il potere di rendere la stessa questione del lavoro, in qualche modo, metafisica. Per chiedersi se sia possibile immaginare una società post-lavorista (forse non dissimile da quella immaginata da Srníček e Williams in Inventare il futuro, saggio cardine del pensiero accelerazionista di sinistra), Gandini assume un punto di vista filosofico, più che economico o sociale, ponendosi una domanda molto più radicale di quella che formulerebbe la mente di un economista. E in fondo l’aspetto cruciale del film sembra sia chiederci se possiamo accettare culturalmente (tutti, in tutto il mondo) che la nostra vita smetta di assumere valore in relazione a ciò che produciamo: sarà accettabile, in futuro, l’idea che si possano ricevere soldi senza produrre merci?

L’operazione è un po’ azzardata: contesti geopolitici molto specifici sembrano eletti a universali, chiamati a mappare idealmente l’intero mondo industrializzato sotto l’egida culturale e economica capitalista.

In conseguenza di questa tensione filosofica, il film non indaga la sostenibilità materiale di un reddito universale o di un mondo del lavoro quasi interamente robotizzato, ma, più per dir così più poeticamente, riflette sul nostro rapporto con il tempo e con la vita. Forse, a ben vedere, la risposta a queste questioni è ancora più profonda, e riguarda il nostro rapporto con la morte: per superare la società del lavoro dobbiamo riuscire a concepire una vita che sia degna di essere vissuta senza produrre nulla, senza lasciare traccia.

Tutte le filosofie occidentali apparentate con l’etica capitalista, che prevedano una dimensione teologica o siano totalmente materialiste, si fondano sull’assunto ineludibile del possesso, individuale o collettivizzato che sia. Per questo Gandini mette al centro del proprio documentario l’etica del lavoro: fa risalire la nascita del dissidio tra tempo occupato e tempo libero al modo di vita dei puritani, che nel 1600, in piena Riforma Protestante, terrorizzati dall’idea che la salvezza si ottenesse non tramite il pentimento e la sincera adesione ai dettami del Vangelo, ma per mezzo delle proprie azioni in vita, fondarono una società interamente imperniata sul lavoro, sul guadagno e – come estrema conseguenza in tempi recenti – sul consumo. Sono le teorie espresse più di un secolo fa da Max Weber nel suo famoso saggio sull’etica protestante, ma possiamo risalire fino alla parabola dei talenti contenuta nel Vangelo: “Perché a chiunque ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha. E il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”.

“Non esiste il non far niente, il non far niente è solo la morte”, dice in After Work Armando – ovvero Armando Pizzoni Ardemani –, che è presentato come giardiniere dei Giardini Barbarigo a Valsanzibio. Allo spettatore non è rivelata la sua origine, io l’ho scoperta solo casualmente tramite una ricerca su Google. Armando Pizzoni Ardemani è conte, figlio di nobili e proprietario dell’intera tenuta nella quale viene immortalato al lavoro. I suoi giardini sono pieni di rimandi simbolici all’elevazione spirituale e alla purezza, raggiungibili, nella simbologia del luogo, attraverso un percorso che conduce il visitatore all’ascesi per mezzo del superamento delle insidie materiali, come il labirinto all’interno del quale Armando è immortalato mentre lavora senza sosta alle siepi. Chissà che a volte non abbia avuto anche lui difficoltà a uscire dalla trappola di cui è inconsapevolmente prigioniero. 

E in fondo l’aspetto cruciale del film sembra sia chiederci se possiamo accettare culturalmente (tutti, in tutto il mondo) che la nostra vita smetta di assumere valore in relazione a ciò che produciamo.

Negli stessi giardini la telecamera di Gandini immortala una statua di Crono, divinità greca del tempo: “Il tempo vola, il tempo è inesorabile”, dice Armando. Il nostro rapporto con il tempo modella il modo in cui concepiamo la nostra vita e la nostra utilità mentre siamo vivi. Il tempo è valore materiale, tanto che il tempo si può perdere e guadagnare e, per uno strano paradosso culturale, secondo molte persone smettere di lavorare e comunque ricevere soldi significherebbe essere più poveri, perdere tempo invece di guadagnarlo. 

Possiamo sentirci definiti dal nostro lavoro? Possiamo identificarci con esso? Esistono veri e propri workaholic, persone affette da stacanovismo performativo, una dipendenza dal lavoro – che non possono fare a meno di definire una malattia anche in casi non patologici. È proprio la performatività l’elemento più disturbante di un sistema lavorativo che tenta di nascondere le proprie storture dietro il mito della dedizione alla grande macchina produttiva sociale. Sarebbe anche nobile lavorare molto, se non fosse che è ritenuto ignobile non fare niente. Ed è proprio l’etica del lavoro, ci dice il documentario di Gandini, che porta alla conseguenza del consumismo sfrenato: spendiamo perché lavoriamo, lavoriamo per spendere e per dimostrare – a noi stessi e agli altri – di poterlo fare. 

È così che in Corea del Sud il governo ha deciso di mettere in pratica uno shutdown forzato di tutti i sistemi informatici pubblici alla stessa ora, per costringere le persone a smettere di lavorare. Quella della iperperformatività, spiegano gli esperti sudcoreani nel film, è una tendenza figlia del processo di trasformazione economica che ha portato il Paese a diventare una potenza globale del tech e ha trasformato una popolazione mediamente molto povera in un gruppo di persone benestanti. L’etica del lavoro, la religiosa dedizione alla crescita, impedisce a queste persone di godersi, in pieno riposo, i frutti storici del cambiamento. 

Performance è anche messinscena, è anche fingere di lavorare e fingere che sia necessario farlo in qualunque circostanza, come nel caso del Kuwait, dove lo Stato assume mediamente venti persone per fare il lavoro di una e i lavori di cura sono delegati esclusivamente agli immigrati, con conseguenze dannose per la salute mentale delle persone. D’altronde, ricevere la stessa quantità di soldi dallo Stato senza fare almeno finta di lavorare genererebbe nelle persone, dicono gli intervistati di After Work, una sorta di crollo della fiducia negli stessi fondamenti della società di appartenenza. È un dato di fatto che molti lavori siano pagati poco, male o per niente. Possiamo affezionarci a un sistema che ci rende schiavi? Eppure, continuiamo a ritenere che una società sana sia fondata sul sacrificio. Così anche i lavoratori diventano sacrificabili. Se continuiamo a racchiudere nel lavoro il senso della nostra esistenza, non ci libereremo mai dalla schiavitù.

Possiamo affezionarci a un sistema che ci rende schiavi? Eppure, continuiamo a ritenere che una società sana sia fondata sul sacrificio.

Gandini tenta di condurre lo spettatore, una questione alla volta, nei meandri del dibattito sul futuro del lavoro umano. Lo fa forse con eccessiva leggerezza argomentativa, con scarsa profondità di analisi, cercando di fotografare un’istantanea sul dibattito più che di scavare a fondo nella questione o provando a inventare il futuro, per l’appunto. Il regista mette una accanto all’altra le immagini di una sorta di polittico sul lavoro di oggi, con l’obiettivo di registrare quanti più “tipi” umani esistenti. Il film assume tinte più cupe solo nel finale, quando prova a inquadrare il fenomeno delle malattie psichiche derivanti dal lavoro: stress, ansia, depressione, burnout. Eppure, la testimonianza a questo proposito è quella di un solo ragazzo e nessuno degli intervistati riesce ad ammettere a voce alta la possibilità che si possa modificare il nostro rapporto con il lavoro. Forse, ci dice Gandini, e in questo avrebbe un merito, dobbiamo scendere a patti con la consapevolezza che per l’uomo immaginare un futuro senza lavoro è ancora impossibile.

Ci illudiamo che la contemporaneità sia segnata dal crollo di tutte le ideologie forti, di ogni pensiero assoluto che porta a credere nell’esistenza di un principio unificante, motore e generatore di realtà. Ci illudiamo di esserci liberati di Dio e delle ideologie. Ciò di cui ancora non possiamo fare a meno, però, sono le strutture profonde di pensiero che legano la nostra esistenza all’idea che la nostra morte debba essere giustificata. Per superare l’etica del lavoro è necessario, forse, fondare una nuova religione che ci autorizzi a morire serenamente, come i protagonisti del Decameron di Boccaccio, che scelgono di passare i loro ultimi giorni a raccontarsi storie a voce senza trascriverle, in un tempo rigidamente scandito e allo stesso tempo sospeso, per poi tornare a Firenze, dove moriranno certamente di peste. Ridere e lietamente morire, possibilmente senza lasciare tracce.

Fabio Ciancone, iltascabile.com (18/09/2023)

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‘Monica’ Star Patricia Clarkson Says Trace Lysette Should Play ‘Opposite Hot Guys in Hollywood’ Like Brad Pitt: ‘It’s Where She Belongs’

Veteran actor Patricia Clarkson thinks it’s time for her “Monica” co-star Trace Lysette to play the love interest of the “hot guys in Hollywood.”

“The next big step is to play opposite Brad Pitt,” she tells Variety. “It’s time for her to be the love interest of these stars. It’s where she belongs.”

The two actors are both on the awards circuit for the critically acclaimed drama which had its world premiere at the Venice Film Festival last year, resulting in Lysette receiving an 11-minute standing ovation. The “Transparent” actor was the first openly transgender performer to headline a film in competition at the oldest running festival in the world. After acquiring the movie in December, IFC Films released it in theaters on May 12, 10 days after the start of the WGA strike.

Now, the poignant drama is among the first movies previously released in theaters to receive an interim agreement from SAG-AFTRA allowing actors to promote specific productions. The producers of “Monica” received their approval on Aug. 18, before speaking with Variety.

From Italian director Andrea Pallaoro, “Monica” tells the story of a young trans woman (Lysette), who, after being estranged from her family, returns home to care for her dying mother (Clarkson).

Every awards season, The Little Movie That Could emerges in the race. Look at A24’s “Everything Everywhere All at Once” and the Sundance sensation “CODA” winning best picture over the past two years. There’s always lots of competition among independent films to be the one that breaks out, but the studio and filmmakers are giving “Monica” all they have.

It’s been 20 years since Clarkson received her Oscar nom for the indie dramedy “Pieces of April,” but the respected “actors’ actor” continues to take on challenging roles and complex characters across film and television, such as HBO’s “Sharp Objects” and last year’s timely drama “She Said.”

Clarkson recalls her time on the Oscars red carpet in 2004 when she competed for supporting actress, losing to Renee Zellweger (“Cold Mountain”). “I was on the red carpet at 43 years old. Everybody thought it was wild. That’s the beautiful move our industry has made. Aging in Hollywood is starting to not matter. Now, a 63-year-old…let’s hope that’s as ordinary [laughs].”

Lysette, 41, has been a rising star dating back to her breakout role as Shea in Prime Video’s groundbreaking series “Transparent” before she made her feature film debut alongside Jennifer Lopez and Constance Wu in the critically acclaimed “Hustlers” (2018).

A pioneer for transgender actors, she remains one of the few to lead a feature film. For example, just five characters in 2022 movies identified as transgender, four of which appeared in Billy Eichner’s “Bros,” according the USC Annenberg Inclusion Initiative.

As intolerance and violence against the LGBTQ community continues, including the recent murder of a shop owner for flying a rainbow flag, Lysette says, “I’ve been dealing with this shit since the 90s. Fistfights were a weekly thing for me. Violence has been a steady part of my life as a trans woman. It breaks my heart.”

Clarkson adds, “No one is safe when you have people spewing the acceptance of hate. This is the rise of rage. Every young person needs to vote. We need change; the only way to change it is to rob them of their voices.”

The continuous battle can take its toll, Lysette explains.

“Sometimes I find myself needing to protect my peace. I want to post about the store owner. I want to show up for O’Shae Sibley, who we lost at a gas station in Brooklyn. In the past year, I’ve lost countless chosen family members in the ballroom community. It’s heavy for me. I have to find a balance between fighting the good fight and protecting my mental health. I’m no good to the world unless I can show up for myself,” Lysette says.

Clayton Davis, variety.com (25/08/2023)

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Buone vacanze, vacanze vere

Se siete in spiaggia e andate avanti e indietro sul bagnasciuga attaccati al telefono per risolvere un’emergenza in ufficio. Se siete davanti ai tappeti elastici a guardare i vostri figli saltare, concentrati su quello che vi sta dicendo il vostro capo con gli auricolari. Se siete a cena su una terrazza panoramica e state scrivendo compulsivamente su WhatsApp ai vostri collaboratori per una questione urgente successa in vostra assenza. Se siete rimasti a Milano, o in un’altra città, perché non potevate o non volevate prendere le ferie come tutti gli altri. Ecco, allora ha qualcosa da dire pure a voi After Work, il documentario di Erik Gandini che vale la pena recuperare al cinema, approfittando del refrigerio dell’aria condizionata. Il film si apre con una citazione di Aristotele sugli spartani — «Furono stabili durante la guerra, ma caddero dopo aver trionfato, perché non conoscevano una vita di pace» — e con la testimonianza di un impiegato sudcoreano che si alza alle 6 del mattino, alle 7 arriva al lavoro, sta in ufficio fino alle 23, torna a casa a mezzanotte, cena, poi va a dormire e ricomincia il giorno dopo, sempre uguale.

Il lavoro è la sua identità: senza, non sa più chi è. Lo stacanovismo performativo è una dipendenza, come dall’alcol o da sostanze stupefacenti. Il 55 per cento degli americani l’anno scorso ha rinunciato alle ferie pagate: sono andate in fumo, irrecuperabili, 578 milioni di ore. La filosofa statunitense Elizabeth S. Anderson chiama in causa l’etica calvinista — all’origine ci sarebbe l’ansia teologica per la dannazione — e di qui il senso di colpa a prendersi una pausa. Lavorare troppo è sbagliato, per sé stessi anzitutto. Perché noi non siamo il nostro lavoro, anche se il nostro lavoro contribuisce a determinare chi siamo, offrendoci opportunità di crescita, di confronto fertile con gli altri, di guadagno. Ma esiste un tempo che è solo nostro, libero, e non è illimitato. Solo noi possiamo decidere come riempirlo, anche se può volerci molto coraggio a scoprirlo e altrettanta determinazione a difenderlo. In Italia il 30 per cento di giovani sono Neet: non lavorano, non studiano, non fanno formazione. Protetti dal piccolo benessere conquistato dai genitori, forse non credono nemmeno nel modello che hanno avuto sempre davanti agli occhi. Magari hanno saltato per troppo tempo da soli sui tappeti elastici, sotto sguardi distratti. Buone vacanze, allora. Vacanze vere.

Elvira Serra, corriere.it (06/08/2023)

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After Work, in un film l’ossessione globale per il lavoro

Tristi tempi. Una volta i “mondo movie” dragavano sesso e orrori per colpire sotto la cintura (nessun rimpianto, per carità). Oggi l’italo-svedese Erik Gandini, già autore fra l’altro di un film su Berlusconi e sugli effetti più nefasti delle sue tv, “Videocracy”, batte l’Italia e il Kuwait, gli Usa e la Corea del Sud, chiedendosi perché il mondo intero è ossessionato dal lavoro, in un senso o nell’altro, e se il futuro ci libererà da questa ossessione. Inaugurando un’era in cui il lavoro non sarà più il perno economico, quando non interiore, delle nostre vite.

Vasto progetto. Più che un docu ritmato e ribaldo, zeppo di esistenze e personaggi al limite, ci voleva forse una serie capace di approfondire, contraddire, collegare in un disegno ancora più sfaccettato i dati e le suggestioni che sfilano con palese malizia.

Perché in Corea del Sud il ministro del Lavoro è costretto a lanciare una campagna promozionale per convincere i cittadini a sgobbare meno? Come mai gli Usa, monumento al calvinismo, bruciano ogni anno 578 milioni di giorni di ferie non godute, mentre nel Kuwait arricchito dal petrolio si usano 20 salariati per fare il lavoro di una persona e ogni famiglia ha in media due collaboratori domestici, naturalmente immigrati? E ancora: cosa penseranno del lavoro, e del reddito di cittadinanza, gli esponenti (italiani stavolta) degli strati più privilegiati?

Ovviamente il lavoro, come la ricchezza, è il luogo delle diseguaglianze più estreme. In ogni senso. C’è chi lo fa con passione e gratificazione (il 15 per cento degli individui secondo la Gallup) e chi lo vive passivamente o addirittura detesta e boicotta più o meno attivamente la propria occupazione (il restante 85 per cento, sempre dati Gallup). Per non parlare di chi un lavoro, qualsiasi lavoro, se lo sogna. Anche se Gandini, registrate velocemente parole e opinioni di alcuni grandi nomi (Yuval Noah Harari, Noam Chomsky, Elon Musk, Luca Ricolfi, Yanis Varoufakis), insinua un dubbio. Magari la religione del lavoro ha fatto il suo tempo.

Forse il reddito universale (una necessità, sentenzia Elon Musk) ci libererà da questo fardello e potremo goderci il tempo libero. Anche se Harari ammonisce: presto l’irrilevanza sarà peggio dello sfruttamento. Per non parlare di quei giovani gaudenti in spiaggia, non una gran pubblicità al nuovo mondo.

Così, più che le idee restano le immagini. La dipendente Amazon e le 5 videocamere nel furgone che monitorano ogni suo istante. L’inserviente (immigrato) che lustra il pavimento del centro commerciale a effetto acquario in Kuwait. L’italiano nato ricco anzi ricchissimo che cura e pota il suo giardino. Un labirinto, guarda un po’.

After Work
di Erik Gandini

Svezia–Italia–Svizzera, 77’

Fabio Ferzetti, espresso.repubblica.it (21/06/2023)